«Quando avevo 18 anni sono andata in vacanza in Sudafrica, e un giorno ho deciso di lanciarmi col paracadute. Mi ricordo ancora la sensazione di essere su quell’aereo, con il cuore in gola, mentre guardavo il vuoto sotto di me e gridavo all’istruttore di non voler saltare. Poi all’improvviso mi ha spinta giù. Per tutto il tempo ho sperato di atterrare sana e salva. Mi piacciono le esperienze che mi terrorizzano ed è per questo che quando scelgo i miei ruoli ho bisogno di sentire che sto rischiando tutto».

Per Vanessa Kirby, 32 anni, bellezza britannica dallo zigomo nordico e qualcosa di Shirley MacLaine tra il mento e il naso, lanciata verso fama planetaria dall’interpretazione della triste principessa Margaret nelle prime due stagioni della serie tv The Crown, la recitazione è uno sport estremo.
«Per fare l’attore devi mettere in conto che puoi sempre fare la figura dell’idiota, ed è quella sensazione che ho sempre cercato», mi racconta quando la incontro al Festival del cinema di Venezia, in una suite dell’Hotel Excelsior. Fasciata in un abito nero che fa risaltare ancor più il pallore regale, dal vivo colpisce per l’azzurro espressivo degli occhi, le efelidi quasi impercettibili. Sembra così diversa dai suoi personaggi, evidentemente ci scivola dentro fino a scomparire.

Per arrivare in concorso alla Mostra, dove ha vinto la Coppa Volpi come migliore attrice per Pieces of a Woman, presto su Netflix, ha preso rischi e affrontato fallimenti fin da quando desiderava ardentemente diventare un’attrice: «Non sa quanti ne ho accumulati, ma mi hanno temprato», ammette. Seconda di tre figli di una giornalista di arredamenti e di un urologo («Papà è l’estroverso di famiglia»), Vanessa non si è lasciata influenzare minimamente dal rumore dei palleggi e dalle urla di giubilo del pubblico che sentiva da bambina nella sua casa di Wimbledon: «Non creda, ho provato col tennis, ma sono negata, impugnavo la racchetta come una padella». Anziché dall’erba del Central Court è rimasta folgorata a 11 anni da uno spettacolo teatrale visto con i suoi. Da quel momento ha iniziato a recitare a scuola, ma il prestigioso Bristol Old Vic Theatre School l’ha scartata.

Ha studiato al National Youth Theatre, laureandosi poi in Letteratura inglese. E solo dopo molti provini falliti e una dura gavetta è riuscita a scalare le vette del teatro britannico, acclamata in spettacoli come Tre sorelle di Checov e Un tram che si chiama Desiderio di Tennessee Williams, dove divideva il camerino con Gillian Anderson che la rimproverava per il suo disordine: «Fece una foto e me la mandò sullo smartphone».

Il caos e il brivido dell’ignoto sono il suo territorio creativo. «Ancora oggi quando leggo un copione non so dove troverò le risorse per interpretare il personaggio e così ogni volta che vado in scena sono terrorizzata», spiega Vanessa. «Il bello però è sfidare i propri limiti, perché la ricompensa sta nel sorprendersi di essere capaci di interpretare il personaggio». L’affermazione sembra calzare per il ruolo complesso di Martha, che in Pieces of a Woman deve affrontare la perdita del suo bambino alla nascita, fare i conti con la crisi della relazione col marito Shia LaBeouf, i giudizi della madre Ellen Burstyn, e con l’elaborazione del lutto e il senso di colpa di aver voluto partorire in casa, come descrive la lunga sequenza di apertura del film: 23 minuti di travaglio che lasciano senza fiato e descrivono, come mai prima visto al cinema, il coraggio, il sudore, la sofferenza, il terrore e l’incanto di mettere al mondo un figlio.

«L’abbiamo girata proprio come a teatro, improvvisando moltissimo», spiega Kirby. «Alla fine ho pianto per dieci minuti, consolata dal regista». Ma come ci si avvicina a un’esperienza del genere se uno non ha figli? «L’ho chiesto a mia madre cosa si prova a partorire, ma ha glissato, perché è un argomento che le donne non affrontano. Al massimo dicono che è doloroso. Non avrei mai potuto interpretarla se una donna non avesse acconsentito a farmi assistere al suo parto». Un’ostetrica, ci dice, le aveva suggerito di non farlo, perché le sarebbe passata la voglia di avere figli. «Tutt’altro, adesso li voglio ancora di più, perché mi rendo conto che è l’esperienza più profonda che possa provare un essere umano».

Vanessa però si è appena lasciata, dopo quattro anni, con il suo boyfriend, l’attore Callum Turner, che aveva incontrato sul set di Queen & Country, perché, come si dice quando non si sa cosa sia successo, le loro carriere in ascesa si sono frapposte agli obiettivi comuni. Semplicemente le coppie scoppiano, si sa, e figuriamoci se a incrinarle non è il desiderio egoistico di brillare attraverso il proprio lavoro, ma addirittura la perdita di un figlio, come nel film. «Per me questa è stata la parte più ardua come attrice, non solo perché è difficile riuscire a esprimere un dolore del genere, ma anche perché di fronte ai traumi sono differente da Martha: non mi chiudo in me stessa, ma devo condividere il dolore con gli
amici, perché raccontarmi mi guarisce».

Adesso pensa a lavorare, perché sa che prima o poi troverà l’uomo giusto: «Anche io come tanti sono attratta da persone che sono il mio esatto opposto», dice, «perché la vita si affronta meglio quando in una coppia ci sono prospettive diverse». Di sicuro tiene all’idea di un sentimento che deve crescere lentamente, basato «su qualcosa di più prezioso dell’appagamento che ti dà il sesso o un’attrazione fatale: sulla solidarietà e la condivisione delle esperienze della tua vita», come accade all’altro suo personaggio che ha stregato Venezia in The World to Come: «Una moglie infelice che nell’America dell’Ottocento ha una breve relazione amorosa con un’amica che ha perso una figlia, e non riesce più a comunicare col coniuge».

L’idea di queste donne sottomesse ai doveri di famiglia e al volere dei mariti ha tirato fuori tutto il suo orgoglio, forse anche perché lei stessa veniva bullizzata a scuola, si badi bene, dalle ragazzine: «È quell’esperienza che ha tirato fuori la mia empatia e mi ha fatto rifugiare nella recitazione, dove mi sono sentita accolta». Per questo è attratta da progetti che indagano i motivi dell’infelicità femminile: «Credo che le due casalinghe di The World to Come fossero donne creative e curiose, che in un’epoca diversa avrebbero avuto più opportunità, e devo anche al loro coraggio la mia indipendenza di oggi. Tuttavia c’è ancora molta strada da fare. Voglio diventare produttrice e finanziare storie al femminile mai raccontate: ho letto davvero, davvero troppe sceneggiature dove le donne stanno a guardare il protagonista maschile».

Intanto è tornata sul set per due episodi di Mission: Impossible, dopo che in Fallout aveva fatto letteralmente vacillare Tom Cruise, abituato a ben altri stunt, con un bacio a dir poco sfrontato: «Ero emozionata prima di darglielo, perché non doveva essere sensuale, ma esprimere una forma di superiorità, così all’inizio sono stata, diciamo, un po’ aggressiva. C’era tanta adrenalina quanta nel gettarsi col paracadute».

A metà novembre verserà più di una lacrima quando su Netflix tornerà The Crown, dove la sua Margaret, che le ha regalato un Bafta, l’Oscar britannico, ormai invecchiata, è stata affidata a Helena Bonham Carter. «È un personaggio che mi è costato enormemente abbandonare. Non conoscevo nulla dei reali prima. Adesso penso spesso a come sia facile valutare le persone dall’esterno, credere di coglierne l’essenza pensando che ricchi e famosi significhi felici. Margaret sarebbe potuta diventare una ballerina o un’attrice, e invece la sua esistenza è stata definita inesorabilmente dalla famiglia». E Vanessa sa cos’è un ruolo da non protagonista. Però adesso è arrivato il momento di indossare la corona.