Quando aveva 17 anni, Jodie Comer si presentò a un’audizione. Una delle tante alle quali aveva partecipato negli ultimi quattro anni. Il giorno precedente lo aveva passato alla cassa del supermercato Tesco di Childwall, un lavoretto che le consentiva di provvedere da sola alla sua «paghetta». Ma aveva anche trovato il tempo per ripassare la parte, una ragazza di buona famiglia, per la quale le era stato richiesto di parlare con un accento shakespeariano. Solo dopo averla scelta, la regista le confessò di aver domandato al casting director per quale ragione l’avessero convocata. «Siccome ero di Liverpool, pensava che non sarei stata adatta al personaggio. Molti, all’inizio della mia carriera, mi hanno fatto sentire fortunata, per il fatto di fare l’attrice, per il fatto di essere dove mi trovavo. E per un po’ è così che mi sono sentita, grata delle opportunità che mi venivano offerte. Poi, ho capito che non è giusto, abbiamo tutti gli stessi diritti a prescindere dalla famiglia e dal posto da cui veniamo».

Otto anni dopo, Comer è diventata famosa per la sua quasi inumana capacità di imitare ogni accento. E questo grazie alla killer professionista Villanelle in Killing Eve. Per incarnare quel personaggio amputato di coscienza, la creatrice della serie, Phoebe Waller-Bridge, non poteva trovare volto più perfetto. Una bellezza vagamente extraterrestre, fronte immensa in cui gli occhi sembrano andare alla deriva e un sorriso illuminato dal superpotere della normalità: un’estetica perfetta per l’era post Covid che ci aspetta, pronta a darci il benvenuto non appena le sale cinematografiche riapriranno.

È molto legata alla famiglia. Il suo Bafta, vinto nel 2019 proprio per Killing Eve, ha viaggiato in treno con i suoi genitori e ha fatto una tappa in un pub dove mamma e papà lo mostrarono con orgoglio agli amici prima di trovare posto su una mensola di casa dove riposa a fianco di un Emmy. Le sue migliori amiche sono le stesse dei tempi delle superiori, «abbiamo un gruppo su WhatsApp, ci messaggiamo in continuazione». Il suo volto si accende quando pensa a un piatto di fish & chips. E parla di birra e di postumi da sbronza con lo stesso entusiasmo con il quale molte sue colleghe disquisiscono di tisane detox.

In Free Guy – Eroe per gioco, la cui programmazione sta slittando causa Covid, interpreta un personaggio doppio: Milly e il suo avatar, Molotov Girl, con il quale si muove in versione potenziata dentro un videogame. Il coprotagonista, Ryan Reynolds, l’ha definita «il più grande spettacolo sulla Terra», ma, appena glielo ricordo, d’istinto, si schernisce. «È un bellissimo complimento soprattutto perché arriva da una persona che ammiro. Ryan è un genio, ho sempre guardato a lui come un attore al quale ispirarmi». Le chiedo se la sua prima reazione d’imbarazzo non abbia a che fare con un problema che riguarda tutte noi: le donne, spesso, fanno fatica ad accettare i complimenti. Forse, è un qualcosa che ci hanno insegnato. «È vero», risponde, «come quando qualcuno ti dice: “Che bel vestito!”. E tu ribatti: “Oh, l’ho comprato in saldo a dieci sterline”. Per quale ragione sentiamo di doverlo dire? Basterebbe un “Grazie”. I complimenti mi fanno piacere, come a tutte, ma sto ancora imparando ad accettarli».

Più facile, per lei, fare i conti con l’ammirazione delle altre donne. Anche se lavora da quando era una pre-adolescente, il successo è arrivato dopo l’esplosione del MeToo e, negli ultimi anni, ha avuto «la fortuna» di collaborare spesso con sceneggiatrici donne. «Ma questo non vuol dire che non ci sia ancora molto da fare, dobbiamo portare avanti la discussione». Nel 2019, Forbes l’ha inserita nella lista delle 100 persone sotto i trent’anni più influenti al mondo. «Oddio. È stato gentile da parte loro, ma ti mette addosso un sacco di pressione. So che a seguirmi sono soprattutto le ragazze, e questo significa avere una responsabilità nei loro confronti. Ma che cosa vuol dire essere influenti? Ho deciso che, siccome sono un’attrice, deve avere a che fare con il mio lavoro. Pensare al pubblico che mi guarda».

Jodie Comer non ha mai fatto mistero di trovare la felicità nella sua professione. «In questo c’è anche un lato negativo, ogni volta che mi è capitato di non ricevere offerte di lavoro, di trovarmi bloccata, mi sono chiesta: “Se non potessi più lavorare, in cosa troverei gioia e soddisfazione?”. È una domanda per la quale non ho ancora una risposta». Anche perché dopo Free Guy non c'è stato niente d meno che The Last Duel, thriller storico diretto da Ridley Scott, scritto da Ben Affleck e Matt Damon, interpretato tra l’altro anche da Damon e Adam Driver.

Però qualcos’altro, oltre i film, l’ha trovato. «Dopo essere stata single per lungo tempo, ora sono innamorata», ammette. Le chiedo se creda nell’amore a prima vista. «Nella vita mi è capitato qualcosa di simile: conosci qualcuno e hai la sensazione che il mondo si sia sincronizzato per quell’incontro», ragiona. «È istinto e io ho sempre avuto la tendenza a fidarmi del mio. In generale, ci sono certe cose, anche sul lavoro, che d’impulso senti di dover fare. Col passare degli anni, mi ascolto sempre di più e ho imparato a esprimere quello che penso. Prima ero terrorizzata all’idea di dire no a un’audizione. Ora non più e, quando accade, spiego le mie ragioni. Noi attori abbiamo un team di persone che ci aiutano, ma, alla fine, tu e solo tu sai che cosa è giusto».

L’unica persona dalla quale accetta ogni consiglio «è Phoebe. Faccio tutto quello che mi dice. Non leggo molto, non ho il tempo, ma se lei mi dice: “Leggi questo libro”, obbedisco immediatamente». Anche la sua ammirazione agisce d’impulso. «Un giorno non ho resistito, e ho mandato un messaggio su Instagram a Aimee Lou Wood. Ero ossessionata da Sex Education, dovevo assolutamente dirle che la amavo».

Il suo rapporto con i social media è conflittuale. Su Instagram condivide solo informazioni sul suo lavoro. «In Free Guy mi sono divertita a interpretare un personaggio che si muove in una realtà virtuale. L’idea di poter scegliere l’aspetto e le caratteristiche del tuo avatar è liberatoria: è una tua estensione eppure è così diversa, fisicamente e psicologicamente. Ma, nella vita di tutti i giorni, dobbiamo stare attenti. Penso in particolare ai social media. Abbiamo questo desiderio di rappresentare noi stessi sempre nel modo migliore possibile. Ma è una fuga».

Nella vita quotidiana, da quando Killing Eve l’ha resa famosa, le capita di sentirsi l’avatar di se stessa. «Entro in un negozio e vedo l’espressione meravigliata della commessa: “Ieri sera ti guardavo in tv e adesso sei qui”. Mi diverte, ma mi mette addosso anche una certa ansia. Quando sai di non poter passare inosservata, devi trovare un equilibrio tra il rispetto degli altri e il modo in cui ti senti in quel momento. L’unica soluzione è rimanere se stessi e io posso contare sulla mia famiglia, il giorno in cui mi dimenticassi chi sono, me lo ricorderebbero loro».

Anche la moda è una passione che vive con un sano distacco. Sul cellulare si diverte a tenere screenshot di capi che hanno colpito la sua immaginazione: «Li compro? Non li compro?». Mentre girava Killing Eve non ha resistito e ha acquistato alcuni dei pezzi indossati da Villanelle. «Quello che amo del suo stile è la sfacciataggine: si mette quello che vuole fregandosene del giudizio degli altri. Io sono un tipo da jeans e sneakers e ringrazio di avere una stylist che mi aiuta a creare l’illusione di essere capace di scegliere l’outfit giusto. Gli abiti di Villanelle per ora stanno nell’armadio, non ho avuto il coraggio di andarci in giro. Temevo che qualcuno potesse accorgersene e chiedermi: “Ma sono gli stessi stivali che indossavi in Killing Eve?”».