Come in un colpo di coda di quel 2020 che non ha risparmiato situazioni inedite e surreali, il mondo ha dovuto osservare le immagini della rivolta dei sostenitori di Donald Trump assembrati il 6 gennaio intorno alla sede del Congresso, a Washington, per impedire la certificazione formale della vittoria di Joe Biden, la penultima tappa di un naturale processo democratico fatto di rituali da rispettare prima dell’atto finale, ossia l’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente il 20 gennaio 2021. Abbiamo visto l’ufficio di Nancy Pelosi, appena confermata Speaker della House of Representative, vandalizzato dagli occupanti che sventolavano per colmo dell'ironia (o dell'ambiguità) la Thin Blue Line Flag, la versione della bandiera degli Stati Uniti che manifesta solidarietà con le forze dell’ordine. Abbiamo visto le foto di uno dei protester seduto alla scrivania di Pelosi e ci siamo interrogati sull’inaspettata fragilità delle misure di sicurezza di un palazzo istituzionale così importante. Ci siamo dovuti chiedere se ci sia stata della tolleranza da parte di qualcuno che potrebbe aver lasciato che tutto ciò accadesse. Mentre in Italia era notte, la Guardia Nazionale è intervenuta per sedare l’invasione del palazzo e alla sindaca di Washington Muriel Bowser non è rimasto altro che lanciare il coprifuoco dalle 20.00, anche se è stato fatto rispettare con molta tolleranza per non riaccendere gli animi. Nel frattempo, i notiziari americani annunciavano la morte di una delle manifestanti colpita al petto da un colpo d’arma da fuoco. Si chiama Ashli Babbitt, aveva 35 anni, ed era una veterana dell'aeronautica con tutti i profili social pieni di post a sostegno di Trump, era arrivata da San Diego per partecipare all'occupazione, e dopo la sua è arrivata la notizia della morte in ospedale di altri tre feriti.

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Anche se le molte organizzazioni estremiste pro Trump avevano minacciato da tempo una “seconda guerra civile americana”, l'opinione pubblica gli aveva dato il peso di proclami folcloristici senza un seguito. Ma questo episodio, mai accaduto, inaspettato, non riguarda solo gli Stati Uniti, visto che persino la Costituzione Italiana ha preso ispirazione in molti punti da quella americana. Per questo tutte le istituzioni internazionali, compresa la Nato, e i capi di Stato esteri, hanno condannato nelle ore a seguire un fatto che mette in discussione le basi della civiltà stessa costruita in millenni di lavoro. Per questo persino il vicepresidente dello stesso Donald Trump, Mike Pence, si è di fatto dissociato da lui e dai rivoltosi chiedendo la cessazione dei disordini e senza aggiungere inopportune parole di comprensione come quelle pronunciate dal presidente uscente, condannate subito dal New York Times per il quale il video in cui Trump chiede ai suoi sostenitori di tornare a casa mentre ribadisce che la vittoria di Biden è "fraudolenta", aggiungendo un "We love you, you are special" ai rivoltosi, è un'incitazione alla violenza. Come è ora considerato istigazione il tweet (mai sanzionato da Twitter) risalente a novembre di suo figlio Donald jr che commentando la sconfitta del padre, si chiedeva come mai “70 milioni di persone sono inca**ate e non si vede ancora neanche una città rasa al suolo”.

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O come quelle di Ivanka Trump, che definisce i rivoltosi "patrioti" (tweet poi rimosso), mentre Joe Biden si prende infine l'onere di diluire tutta questa benzina gettata sul fuoco dichiarando "questo che stiamo vedendo non rappresenta l’America, si tratta di una minoranza, le parole di un presidente contano, possono ispirare e possono incitare". Intanto, i social hanno sospeso gli account di Trump per 12 ore, per evitare altri incitamenti ai disordini, troppo tardi perché basta tornare al 30 dicembre scorso per ritrovare un tweet del presidente uscente e accorgersi che nessuno aveva preso sul serio un invito ai suoi fan di essere tutti, "il sei gennaio a Washington DC". Forse è stato questo, in un'epoca in cui per molti la vita si svolge sui social, che il presidente uscente, nella tarda notte americana, ha deciso di arrendersi promettendo di lasciare la White House "ordinatamente". Ma per i commentatori internazionali, compreso l'ex direttore di Repubblica Mario Calabresi, da qui al 20 gennaio difficilmente Trump si asterrà dalla tentazione di continuare ad "avvelenare il dibattito pubblico": bisognerà vedere come reagirà intorno a lui il partito Repubblicano.

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