«È il vostro sguardo che ha fatto Aznavour. Ma anche io vi ho guardato, dall'inizio». E nessuno se n'era accorto. Perché era uno chansonnier tanto gigantesco sul palco dell'Olympia di Parigi o della Carnegie Hall di New York - quando se ne stava solo col microfono a far volteggiare le sue storie gonfie di un mélo ineluttabile, con affondi iperrealistici-, quanto invisibile per le strade del mondo su cui ha camminato in turné. Da lì, dalle vie affollate di Tokyo, Dakar, La Paz, o anche dall'Armenia da cui erano scappati i suoi genitori per migrare a Parigi dove è nato, "il piccolo armeno" con un corpo e una faccia quasi senza qualità e con la Super 8 che gli regalò Edith Piaf, che lo scoprì, ha ripreso tutto: la gente, i bambini spettinati dalle periferie, le belle donne di passaggio e anche quelle che ha sposato (3, due brevemente e per gioco ma con la terza, Ulla Thorsell, ha fatto sul serio fino alla morte). Sono stati pochissimi gli idoli che si sono riusciti a mimetizzare tra la gente nel pieno del successo, lui era uno di loro.
Non bisogna essere dei fanatici delle sue canzoni - anche se francamente risulta difficile pensare che il romanticismo contemporaneo possa esistere senza Il faut savoir per esempio, o Et moi dans mon coin che è Ed io tra di voi ripreso da Battiato - per tuffarsi nel docu Le Regard de Charles, uno dei film che hanno inaugurato la 32ma edizione del Trieste Film Festival (finisce il 30 gennaio), che si può guardare fino a domenica 24. Per realizzarlo, Marc di Domenico ha fatto affiorare dall'immenso archivio di Aznavour (per qualche mese insieme a lui, prima che morisse il 1 ottobre 2018, poi in solitaria) un diario intimo che parla del cantante mostrando ciò che filmava.
Non è solo il fascino vintage delle cose e delle persone, o l'opportunità di entrare nelle pieghe della vita di un grande artista, uno che ha cantato in sette lingue (e insieme a Frank Sinatra, Ray Charles, Barbra Streisand, Nina Simone, Compay Segundo, Dalida, Mia Martini - e Iva Zanicchi! -) e lavorato con Truffaut. Non è neanche solo lo spettacolo di una vita che parte dai bassifondi, a un certo punto si incendia e da lì in poi procede in una lenta combustione che dispensa luce ed emozioni. Quello che incanta del documentario è come ci ricorda che esiste un modo analogico di filmare, ovvero di registrare la realtà: senza controllare il girato e magari cancellarlo per riprovare. Senza avere la possibilità di seguire più strade per non sceglierne nessuna. Senza che l'audio pervasivo di ciò che si riprende si mangi l'attenzione e le sfumature percepibili in un video muto. Senza effetti speciali che elaborino la realtà prima che lo possano fare la nostra testa e la nostra sensibilità.
Certe operazioni retrospettive sembrano fatte apposta per buttarci in faccia il presente e, soprattutto, pressarci sul futuro, costringendo a chiederci quanto lo vogliamo distante, e da cosa. Rispondere non è obbligatorio e forse nemmeno utile. Ma Le Regard de Charles, col suo calore imperfetto e sgranato e la sua verità in pellicola, attiva come per magia un tipo particolare di sensibilità per le immagini in movimento che si sta addormentando in ognuno di noi. Oltre ai piatti freddi e di produzione industriale forniti a scadenze regolari dal self service delle piattaforme streaming, c'è molto, davvero molto di più. Lo troverete nei luoghi in cui il cinema sa ancora rischiare: si chiamano festival. In questi strani tempi di pandemia ci vengono incontro online, non lasciamoceli sfuggire.