Il silenzio è una strategia di resistenza. Prego interrogare il pandoro artigianale per comprendere come si fa (e quanto ci vuole, quanto, a imparare a resistere). La geopolitica del Natale si è sbilanciata su Milano con anni e anni di panettoni di tutti i tipi, esplosioni di classici, al pistacchio o al cioccolato, fino alle limited edition di panettoni estivi, vero twist spazio-temporale del consumo del lievitato natalizio. E dire che molti degli artigianali degli ultimi anni sono ben distanti dalle tradizioni meneghine. Panettoni barocchi, trasudanti frutta secca, avvolti in carte screziate di oro, un filino d'avanspettacolo nella loro progressiva entrata in scena. Di fronte al divismo masticato con sicumera, il soffice contraltare della signoria scaligera si è impegnato prima in timide rinascite di fabbriche storiche, poi con lo stampo a stella ha costruito lentamente la sua rivincita. Da bravo lievitato, ha atteso i tempi giusti. Che sono qui: è ufficiale, il 2020 è l'anno del pandoro artigianale. Finalmente, verrebbe da dire. Minimalista, lontano dall'ostentazione gratuita, il pandoro sottolinea la necessità post pandemica di muoversi tra i poli cardinali di semplicità, artigianalità e sobria ricchezza interiore. Ma non ha fatto tutto da solo: si è affidato alle mani esperte degli strateghi di burro&lievito che hanno lavorato di cocciutaggine e chimica degli alimenti per riportarlo alla sua essenza nobile e profumata. Basta panettoni di tutti i tipi, bentornato pan de oro, nome tradizionale del pandoro di Verona depositato da Domenico Melegatti nel 1894, incluso oggi nei PAT (prodotti agroalimentari tradizionali italiani disciplinati dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali).

Le storture socioculturali come Il pandoro è da bambini, il panettone è da grandi hanno relegato il suo sapore sull'orlo della preadolescenza, per imprimere la dittatura del candito su almeno due generazioni di quasi adulti. Risultato? Contrazione degli acquisti del pandoro, -7% rispetto al panettone (comprato dal 79% delle famiglie) nel 2019 secondo le stime di Coldiretti. A questa fama ha contribuito l'esportazione nel mondo, siglando l'equazione panettone = dolce di Natale italiano del nuovo millennio e relegando la lunga storia del pandoro ad una nicchia. Ma è anche vero che il pandoro fatto a mano lo sanno apprezzare in pochi, l'industrializzazione del lievitato ha influenzato molto le abitudini del palato. Quindi il primo passo è stato l'approccio scientifico alla ricetta del pandoro e alle eventuali scelte personalizzate che ne valorizzassero l'equilibrio insito: ed è qui, fuori dalle rive dell'Adige, che entrano in scena i pasticcieri professionisti, con un certo orgoglio di mestiere e territorio. "Sono stufo di parlare di panettone. Ormai lo fa chiunque, anche el can del pignataro, come diciamo qui" racconta Nicola Olivieri, mente creativo-esplosiva della sesta generazione di Olivieri 1882, laboratorio di pane e pasticceria di Arzignano (Vicenza) premiato come miglior colomba artigianale del 2019.

La valorizzazione del pandoro artigianale inizia a metà degli anni Dieci del nuovo millennio, secondo Nicola, tra i primi testardi cavalieri a buttarsi nell'impresa. "Onestamente, l'ho preso molto sottogamba. Pensavo: sono capace a fare il panettone, a buttare giù un impasto che ci vuole? Invece, giuro, ho sclerato" ammette ridendo, saggiando con i polpastrelli la fetta di pandoro in degustazione (dopo, per amor di cronaca, aver assaggiato la pasticceria da colazione, con picchi altissimi di lussuria palatale). "Non sapevo che fare, non ci riuscivo. Chiedevo in giro, mi guardavo intorno e nessuno lo produceva da solo, magari lo avevano ma era fatto da qualcun altro. Dopo non so quante volte che provavo, un giorno ho lanciato lo stampo contro il muro... Era una questione di principio: come potevo spendermi come esperto di lievitati se non riuscivo a fare il pandoro?". Perché va detto: sul panettone fatto in casa fioriscono ricette più o meno efficaci. Al contrario, il pandoro fatto in casa è di realizzazione quasi impossibile, tante sono le variabili coinvolte. Lo stampo, tanto per cominciare. Le materie prime, a seguire. Tra cui, la devozione al grasso più buono che c'è: "Il problema, che è la caratteristica del pandoro, è che è gonfio di burro. È cento volte più difficile del panettone: l'attenzione a tempi e temperature deve essere massima. Il panettone ti perdona mezzo grado in meno o in più in cottura, il pandoro no. Deve essere tutto perfetto".

close up italian pandora cake at nidau, bern canton, switzerlandpinterest
Feifei Cui-Paoluzzo//Getty Images

Come riconoscere il pandoro artigianale più buono? Un lavoro sinergico per i cinque sensi. Il profumo, innanzitutto. All'apertura dell'involucro protettivo, deve sprigionare arie di burro leggermente zuccherato e vaniglia. Un lavoro per nasi esperti, profondo ma delicato, forte in testa con sentori leggeri di uova. "Siamo abituati a mangiare il pandoro industriale fatto con mono e digliceridi degli acidi grassi, che stabilizzano il prodotto, e la vanillina. Il nostro è completamente naturale, non esistono conservanti e aromi. Siamo stati indietro con lo zucchero: l'impasto deve essere quasi neutro, tendere al dolce ma non essere stucchevole. C'è la fava tonka e la vaniglia vera, si vede dai puntini neri: ecco, la vaniglia vera non la usa quasi nessuno perché costa troppo" specifica Olivieri. Per apprezzarne al meglio la parte aromatica, si copia l'esempio del cugino panettone: scaldare il pandoro prima di servirlo, così che il burro si stemperi. Basta lasciarlo vicino ad una fonte di calore, come un camino o un termosifone, per almeno mezz'ora, oppure in forno scaldato a 50-80 gradi per un paio di minuti. "Intero, mi raccomando. Per scaldare la singola fetta, il tempo si riduce... a circa tre secondi" chiarisce Olivieri. In emergenza, va bene pure una padella scaldata a fuoco basso, dove appoggiare la parte esterna e più spessa della fetta. Vista e tatto servono a controllare forma&consistenza. "Essendo in uno stampo, pensavo che il pandoro non avesse problemi a restare bello dritto. In realtà il panettone si gira sottosopra e questo lo aiuta a tenere la forma a cupola. Il pandoro no, tende a sgonfiarsi e sedersi su se stesso. Quando ha un curvone molto accentuato sul lato basso, vuol dire che qualcosa non ha funzionato nella lievitazione". Check d'obbligo: una leggera S è sintomo di artigianalità accurata e di proporzioni millesimali di tutti gli ingredienti (altrimenti, meglio preparare la tisana al finocchietto o un digestivo a piacere). Anche guardare la texture della singola fetta dopo il taglio è importante: "Il pandoro non deve essere alveolato come il panettone, altrimenti quando si raffredda si schiaccia su se stesso: meglio che la struttura sia più fitta e compatta" specifica ancora il pasticciere. E finalmente, il momento del gusto: all'assaggio non deve impastare il palato. Il sapore del pandoro artigianale migliore arriva prima sul fondo della lingua con una punta di dolcezza, poi avvolge la lingua di delicatezza suggestiva, alimentata più dai profumi che dallo zucchero. Equilibrato, bilanciato. Voilà.

Il ciclo di vita del pandoro artigianale finisce quando lo si ricopre di crema per trasformarlo in un concentrato di peccati di gola, circa una cinquantina di giorni dalla data di produzione. Ma Nicola Olivieri è andato oltre la soluzione più immediata, pensando a una ricetta per riciclare il pandoro modellata sul classico french toast: si scottano le fette in padella e poi si ricoprono con crema chantillly e frutti di bosco, o una namelaka al mascarpone, o una ganache al cioccolato con confettura di arance. Chi non ama i dolci, può optare per la variante salata e trattare il pandoro come un pane da club sandwich: via libera a formaggio (ricotta di malga, caprini, qualcosa di più stagionato), qualche salume robusto in contrasto con il sapore burroso e delicato. Qui si svela la sua capacità rappresentativa di ogni goloso, la pace garantita ai sensi di tutti gli articoli della Costituzione Gastronomica. La nobiltà del pan de oro è in questa trasversalità minimalista. Da vestire a piacimento anche dopo Natale.