Li vedo arrivare da lontano e via via che si avvicinano li metto a fuoco. Poi ci incrociamo, loro continuano per la loro strada, e io rimango lì imbambolata manco avessi visto gli extraterrestri uscire dalla navicella alla fine di Incontri ravvicinati del terzo tipo. I miei marziani sono un bel signore anziano e un bambino sui tre anni che vicini vicini se la raccontano, ridono, scherzano, e sembrano i padroni del mondo. Dietro di loro, a spingere una carrozzella e un passeggino perfettamente allineati, due giovani intenti anche loro a dirsi cose che sembrano metterli di splendido umore. Sono nonno e nipote, quel bambino e quel vecchio? Chi lo sa, quel che è sicuro è che sono indimenticabili. Sono l’immagine più vivida di qualcosa che sai da sempre ma poi ti scordi. Finché te la ritrovi davanti in una scena così perfetta che sembra un film ma è la vita vera, dove tutto scorre leggero e fra vecchi e bambini si crea un contatto speciale. Quella vicinanza che li rende complici e un po’ misteriosi agli occhi degli altri: se l’avete vissuta o anche solo intravista poi ci fate caso per sempre.

Bambini e vecchi hanno un bisogno assoluto della razionalità e della cura degli altri - gli adulti -, ma anche di quel misterioso regime di libertà incondizionata che vale solo fra di loro. Per dire: cos’ho imparato da mia nonna non saprei spiegarlo bene, ma so che finché c’è stata mi bastava essere con lei per fare scorte di matta allegria e di una complicità mai conosciuta prima, fatta di un sacco di cose uniche e speciali quant’era unica e speciale lei. Ma anche di qualcosa che accomuna vecchi e bambini, qualcosa che un paio d’estati fa mi ha aiutato e mettere a fuoco Pupi Avati mentre presentava un suo romanzo all’Orto Botanico di Palermo durante il bel festival Una marina di libri (quest’anno dal 24 al 27 settembre).

A un certo punto, forse per togliere gentilmente la parola all’intervistatore che la faceva lunga, il regista ha cominciato a divagare. E a parlare di quella misteriosa età dell’innocenza che crea una famigliarità fra vecchi e bambini, entrambi specialmente dipendenti e vulnerabili e dunque anche per questo più in contatto con gli altri. Perché «quando sei privo di difese senti il tuo prossimo molto di più. E diventi fragile come il bambino che sei stato». Occhio però - e se conoscete i film di Avati lo potete immaginare -, non c’era nulla di retorico in quel che diceva, piuttosto un ragionevolissimo non elogio della ragione, spesso sinonimo di calcolo e convenienza. Un tema che il regista ha ripreso anche in una lettera pubblica scritta ai vertici Rai durante il tempo sospeso del lockdown. «... e piango e rido davanti alla televisione come piangono e ridono i vecchi, che è poi come piangono e ridono i bambini...». Che forse comunicano così bene fra loro perché sono ugualmente fragili, vulnerabili, ma anche liberi, imprevedibili, anarchici e serissimi.

«La vecchiaia è molto strana», scrive Somerset Maugham in Acque morte, «ha una sorta di separatezza. Ha perduto tanto, che è difficile considerare i vecchi del tutto umani». Troppo umani, forse. O extraterrestri che via via assomigliano sempre di più ai bambini che sono stati e a tutti i bambini. Insofferenti ai lacci e lacciuoli che negli adulti imbrigliano la fantasia, l’ironia, e pure la poesia. Quel vecchio in carrozzella e quel bambino in passeggino sembravano avere tutto. E ridevano.