Mi sveglio, c’è il sole, e da là sotto arrivano strani rumori. Mi affaccio, e la mia via (non lunghissima ma neanche tre case) è presidiata da furgoni, molti coi portelloni aperti. Intravedo macchinari vari, abiti, giovani che s’arrabattano e parlano negli auricolari. Una pubblicità (ma tutte ’ste persone)? Un flash mob molto tecno? Un film?

Troppo indolente per scendere e capire, me ne scordo fino a sera, quando mi riaffaccio e vedo che stanno smontando tutto. Fretta, sorrisi, ragazze con la coda di cavallo che confabulano, un tipo che maneggia una console. Boh. Però tutta quella gente che si saluta, si rimette in sesto e poi si saluta ancora ha fatto drizzare le mie antenne meglio sintonizzate: ecco cos’ho in testa da stamattina e ha orientato il mio umore. Quale che fosse il senso di quell’ambaradan, io era finita dentro un film - il mio film, Effetto notte - e non ne ero più uscita.

Breve stacco per chi non sa di cosa parlo (c’è un tesoro che vi aspetta) o per chi non lo ricorda bene (io l’ho appena rivisto per la 123esima volta, ed è ancora più sorprendentemente meraviglioso): Effetto notte è un film del 1973 di François Truffaut, è ambientato a Nizza dove un regista, Truffaut medesimo nel ruolo di Ferrand, sta girando un film. Insomma, è un film sul cinema, che ho adorato dalla prima volta che l’ho visto, ora più che mai, e ho capito perché. In questo film c’è quasi tutta la vita come amerei che fosse, come vorrei venisse presa, vissuta e celebrata.

A partire dai dettagli: le automobili (lo Squalo blu col tetto beige, la Triumph cabriolet, le spider, la 500 decapottabile...); quel vaso blu e bianco portato via da una stanza e messo in scena; i maschi con le camicie a rigoni e le femmine coi pantaloni a zampa d’elefante; i gatti che non leccano il latte a comando; il modo più intimo per fare un piccolo, prezioso regalo: lasciarlo scivolare in una tasca e immaginare il sorriso di chi lo troverà; la rapidità mentale nel risolvere i problemi tecnici e la cura sentimentale nel maneggiare il fattore umano; la scoperta che ho fatto l’ultima volta che l’ho visto, e di cui pare che anche Truffaut si sia accorto molto dopo: il cameo di tal Henri Graham, agente di una compagnia di assicurazione inglese, dietro il quale si nascondeva lo scrittore Graham Greene; la favolosità del parlare tre lingue (francese, inglese e italiano) pattinando con la stessa svagata nonchalance da una all’altra.

Proseguendo con quella «domanda urgente» che uno dei protagonisti fa a chi gli passa a tiro (42 anni prima che Jovanotti mettesse la sua risposta in musica): «Le donne sono magiche?».

E infine mandando a memoria alcune frasi, perfette per la sceneggiatura della vita che vorrei. «Non è che perché uno ha avuto un’infanzia difficile la deve fare pagare a tutti», «Io per un film potrei lasciare un tipo ma per un tipo non potrei mai lasciare un film», «Non fare il cretino, non mollare. Sei un bravissimo attore, il lavoro va a gonfie vele. Lo so, c’è la vita privata, ma è complicata per tutti. I film sono più armoniosi, non ci sono intoppi, non ci sono rallentamenti. I film vanno avanti come i treni, capisci, come i treni nella notte», «Sono buffe le nostre vite: ci si incontra, si lavora insieme, ci si ama, e poi puf! Non c’è il tempo di afferrare le cose, che non sono più qui».

Mica vero. Vedi, e rivedi ancora e ancora questo film, e tutto è sempre qui, e ci resta. E poi sì, le donne sono magiche. O meglio: «Certe sì. Altre no, eh».