In un racconto di John Cheever intitolato L'angelo del ponte a un uomo viene un attacco di panico mentre attraversa in auto un ponte di New York durante un temporale. È l'inizio di una stagione di ansie inspiegabili, che lo rendono incapace di superare in macchina i fiumi senza terrore, senza cercare alternative, senza squagliarsi dalla paura e spesso rinunciare. «La mia vita era finita e non sarebbe mai più tornata, tutto quello che amavo - il coraggio cieco, la vitalità, la naturale presa sulle cose - non sarebbe più tornato. Sarei finito nel reparto psichiatrico dell'ospedale della contea urlando che i ponti, tutti i ponti del mondo, stavano per cadere». Poi, in uno di questi attacchi di panico prima di imboccarne uno, una ragazza con un'arpa sale sulla sua auto, senza chiedere il permesso. Chiacchierano dei pericoli dell'autostop, di musica folk, di viaggi, lei gli canta una canzone e senza accorgersene, sono dall'altra parte del ponte, che all'uomo all'improvviso sembra «una costruzione straordinariamente sensata, solida e addirittura bellissima». La ragazza scende, ringrazia, saluta e va via. I ponti sono stati addomesticati.

Pensavo che in fondo sarebbe stato facile scrivere questo articolo di commiato dal 2020.

Mai un anno è stato così presente e citato mentre lo stavamo vivendo. Lo abbiamo storicizzato in diretta, costruendogli un museo futuro di teche e archivi per contenere tutto. Mi sembrava di conoscerlo perfettamente, gli abbiamo regalato una sua personalità, ovviamente meschina e ostinata, mentre faceva a pezzi progetti, ci spaventava, ci sottraeva affetti e libertà. Ma ora il ponte è vicino e sembra difficilissimo da attraversare o elaborare. L'anno della pandemia è stato un lungo dialogo interiore con la paura, e ora sembra impossibile immaginare il futuro senza queste paure, che ci hanno oppresso e nell'opprimerci sono diventate familiari, protettive. Quasi tutte le vite sono state messe in pausa, e il passaggio dell'anno, con le prospettive che contiene - le primule di Arcuri e Boeri, i vaccini, l'idea che tutto questo a un certo punto finirà e magari avrà pure un senso - ci viene a stanare nel castello degli alibi in cui ci siamo nascosti.

Per fortuna il nostro cervello è costruito anche per dimenticare.

Non è il semplice decadimento dei ricordi come la frutta che marcisce al sole, è una questione di design e, in parte, di scelta. Siamo programmati per andare avanti e anche per decidere cosa tenere in valigia e cosa abbandonare sul letto di un posto dove siamo stati male. Senza oblio saremmo inservibili. Quest'anno perduto sembra familiare ma anonimo come un'ombra perché avvertiamo già il diritto e la facoltà di cancellarlo, asportarlo, diluirlo, o immaginarlo come un buono sconto da scalare sulle sciagure future o l'invecchiamento. Se esistesse quella tecnologia di Men in Black, un flash e l'oblio, forse la useremmo a vicenda dopo l'ultimo brindisi o da soli allo specchio, forse sta già andando così. È un buon primo passo. Gli anni in fondo li contiamo anche per liberarcene, farne una bad company destinata al fallimento, carica di tutti i debiti accumulati e impossibili da pagare. Ovviamente a gennaio avremo gli stessi problemi, ma ogni foglio bianco è una liberazione, e così accoglieremo il 2021, il posto dall'altra parte del ponte di Cheever. Andrà come andrà, ma almeno c'è finalmente di nuovo del potenziale. Niente sarà diverso, noi non saremo diversi, ma avremo la mente sgombra, il contatore del pessimismo azzerato.

Tutto sta ad attraversare.

Andarsene dal 2020 è difficile anche per via di questo sfasamento tra un periodo pieno di avvenimenti enormi e la sensazione di vuoto domestico. È stato un anno originale, pericoloso ma anche monotono e ovviamente queste qualità non vanno bene insieme, è difficile trarne una logica. Guardo le cento foto scelte da Time per raccontare il 2020 ed è incredibile quanto sia accaduto mentre la maggior parte di noi stava principalmente chiusa dentro casa. Joe Pinsker su The Atlantic ha scritto che quest'anno ha dato più materiale agli storiografi che agli autori di diari. La storia siamo noi, eppure siamo stati esclusi, siamo rimasti chiusi dentro casa quando veniva la sera, potevamo solo sbirciare le strade vuote per farci un'idea di quello che stava succedendo, provare a capire se i ponti stavano crollando oppure no. Per tanti purtroppo è andata davvero così, è stato l'anno con più perdite umane dal 1944, qualunque futuro dovrà sia seppellire i morti che riparare i viventi. Però se stai leggendo, in qualche modo ce l'hai fatta, non c'è un vero e proprio premio, però c'è un altro anno da scrivere e una valigia da fare.

C'è qualcosa che vuoi salvare e portare con te?

C'è chi ha prosperato, per ostinazione o fortuna: trovare un buon lavoro, un amore, avere un figlio o una figlia durante una pandemia. Se fai parte di questo gruppo, sai già che cosa porterai nel 2021. E gli altri? Chi lo sa se le sconfitte servono a imparare qualcosa. Probabilmente in parte sì, perché imparare è un atto che prescinde dalla volontà, dall'occasionale depressione, dalla stanchezza. Si impara anche controvoglia, ne avremmo fatto a meno, ma quest'anno perduto e ostile è stato come quei ritorni a scuola che si rivivono negli incubi: un esame a sorpresa continuo. E qualcosa abbiamo imparato, non solo la conoscenza sulle pratiche di igiene e i principi di epidemiologia, ma anche nozioni nuove sul funzionamento base della nostra vita. Per esempio la gestione delle distanze, a vivere dentro e nonostante le distanze, ma soprattutto che tutte le distanze non colmate rimangono tali. La vita prima della pandemia sembrava un film in cui ogni esito era possibile, poi è diventata una fotografia in cui tutto è rimasto congelato. Tornerà presto a muoversi, ma c'è una lezione e ce l'ha distillata questo anno perduto: il tempo è proprio poco. È una verità preoccupante, ma anche entusiasmante. Quando l'energia non sarà più ingabbiata, e ci si potrà riprendere quel po' di libertà che serve a condurre vite e giornate, dovremo e potremo di nuovo scegliere. Dove andare, con chi andarci. E toccherà finalmente farlo. È la migliore delle notizie, da mettere in cima al foglio bianco che è il 2021.

Il racconto di Cheever sull'angelo del ponte mi è venuto in mente pensando al commiato dal 2020. Il protagonista sviluppa le sue paure all'improvviso, dopo aver dato a lungo poco peso a quelle degli altri, la madre con il terrore degli aerei, il fratello che non sale sugli ascensori. Si sentiva immune e invece le ha dovute accettare, affrontare e attraversare. L'ho riletto e ho pensato al coraggio cieco, la vitalità, la naturale presa delle cose, che pensava sue per sempre, e poi smarrite per sempre, e invece non erano nessuna delle due cose. Era solo un essere umano, che a un certo punto si era trovato, come molti di noi quest'anno, esposto alla fragilità delle cose, e poi l'ha superata. L'angelo del ponte gli canta una canzone folk mentre gli fa attraversare il ponte senza accorgersene, ed è una buona ricetta, trovare qualcuno che ci canti qualcosa, oppure farlo noi, farcelo a vicenda, come abbiamo provato a fare sui balconi a marzo, ma in modo più intimo, in attesa di essere finalmente dall'altra parte.

Attraversare il ponte e arrivare verso il futuro, dove la vita, come i ponti, ci sembrerà di nuovo una costruzione sensata, solida e bellissima.