Cent’anni fa mio nonno paterno, allora un timido adolescente, arrivò a Milano per cercare lavoro. In un secolo si sono avvicendate quattro, quasi cinque generazioni, famiglie si sono formate come fiumi che convergono per poi travolgere gli argini e ricomparire a valle, rimescolate.

Osservo questo tempo, oltre trentamila giorni in fila, molti di più se li moltiplico per ognuno di noi. Il conteggio non sarebbe però mai partito se non fosse stato preceduto da quei minuti impazziti, diversi: quelli degli innamoramenti. Non è terribile o meraviglioso - forse entrambe le cose - che la loro storia occupi soltanto quei pochi giorni stralunati e in cui le lucciole sono incantevoli lanterne, i pochi mesi in cui un amore nuovo dilaga come un vento che smuove tutto dentro? Provo a immaginare questo calendario: anche includendo le passioni clandestine, negate, sognate, resta così breve; eppure, senza, non sarebbe mai nato l’amore di padri, mogli, figli, nipoti...

È inspiegabile la scarsa attenzione che riserviamo all’atto famigliare primigenio e il primo tra noi a riconoscerlo è stato mio figlio. Un giorno si è seduto al fianco di mia madre, sua nonna, con un registratore e, abile interlocutore sentimentale, le ha fatto una lunga intervista sull’innamoramento per chi sarebbe diventato il suo secondo marito. Pagine esplosive: il figlio ha detto che non era compito per me. Sono curioso ma la nonna, dice, ha posto il veto. È sempre stato lui a chiedermi di scrivere che cosa mi avesse fatto innamorare di sua madre, da cui poi mi separai. Pensavo, dopo tanti anni, di non saper rispondere se non con parole prese a prestito. Invece ho rivissuto sia “cosa” fosse stato a farmi innamorare, che l’effetto su di me dell’improvviso ribaltarsi di ogni prospettiva dopo averla incontrata; per lui, ritrovare passione al preludio della propria vita, prima che la relazione si guastasse, è stata una riconciliazione con sé.
Vorrei che i miei anziani e separati genitori facessero lo stesso? No, meglio immaginare: non aver avuto un’infanzia serena permette di desiderarla. Eppure se c’è una domanda che ricordo con riconoscenza e che mia madre mi ha fatto, è stata: ma sei innamorato di lei?

Penso alle figlie. Una ha avuto fidanzati ma mi è mancato il coraggio di rivolgerle questa domanda secca. Ho anche la sensazione che in generale, non sia più considerata così fondamentale e mi dispiace. Non conoscerò la risposta, però il ricordo di quei giorni color rubino - è Neil Young, canta ciao, rubino nella polvere in Cowgirl in the Sand - dovrebbe entrare in uno speciale album di famiglia, vicino alle nascite, ai matrimoni, alle feste grandi e, in occasioni davvero speciali, rese accessibili a chi ne avesse bisogno.
Chiedo alla mia piccola di undici anni. Sai cosa succede quando ci s’innamora?
«Si smette di essere normali».
Mi commuove, chissà che per lei l’insolito duri tanto da riempire pile di calendari.
Avrei un sogno. Riunire le mie famiglie, i morti attraverso la memoria dei vivi, il futuro grazie a un indovino e, come in un incontro degli Innamorati Anonimi, ascoltare le mirabolanti storie di quei giorni, inclusi benefici scompensi cardiaci e assenza di salivazione, vivere il momento in cui mio nonno incontrò la sua ragazza milanese, bassina e perbene, e che cosa ruberà il sonno ai miei figli senza farli sentire stanchi. Cos’è? Il modo in cui lei teneva le mani? Io mi limiterei all’effetto, con le parole di Jenny Offill in Tempo variabile: «A volte il cuore scappa via con qualcuno portandosi dietro solo un fagotto attaccato a un bastone».