“Una finestra ricoperta di gocce di pioggia mi affascina cento volte di più del ritratto di un personaggio famoso”

Non potrebbe esserci frase migliore, per raccontare la filosofia di Saul Leiter, gigante della fotografia di strada, o street photography come direbbero gli anglofili. Un maestro che usava i colori come tempere in una tavolozza e New York come tela ideale della sua arte. Fatta di toni saturi, atmosfere rarefatte e rivoluzionarie inquadrature sghembe. Sghembe solo in apparenza. A tal proposito viene in mente quello che il cantante brasiliano Joao Gilberto rispose ai suoi detrattori che lo accusavano di stonare quando, nel 1959, pubblicò Desafinado. “Le mie non sono affatto “stonature” ma nuove sonorità, note che non avete mai ascoltato prima”. E inquadrature mai viste prima erano quelle di Leiter, che firmava opere personalissime capaci di offrire allo spettatore un nuovo modo di vivere la realtà. Una realtà vissuta soprattutto d’inverno. Saul, protagonista della collettiva It Was All a Dream alla Greenberg Gallery di NY fino al 6 febbraio, è stato il più grande di tutti a raccontare le stagioni più fredde. Nessuno meglio di lui ha saputo ritrarre le giornate di pioggia e le strade innevate. Trasformando la malinconia tipica di certi pomeriggi di gennaio in ottimismo e leggerezza. Il brulicare di ombrelli e pozzanghere, traffico e impermeabili, trasformato in poesia.

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E pensare che sarebbe dovuto diventare rabbino (il padre era un noto studioso del Talmud). La pittura però lo rapisce a 23 anni, quando dalla sua Pittsburgh sbarca a New York, città che non lascerà mai più. L’uomo chiave della sua vita è il pittore Richard Pousette-Dart, esponente dell'Espressionismo Astratto e padre della scuola di New York. E’ grazie a lui, e all’amico Eugene Smith, che si converte alla fotografia. Siamo agli inizi degli anni Cinquanta: Saul scatta soprattutto in bianco e nero, anche se non disdegna il colore. Frequenta Robert Frank e Diane Arbus. La serie In My Room, realizzata fra gli anni 40 e i primi anni 60, è il gioiello di questo periodo. Ritrae Barbara, Faye, Soames, Inez all’interno del suo studio e le trasforma in delicati oggetti del desiderio.

La grande svolta arriva nel 1957, quando la conferenza “Experimental Photography in Color” al MoMA, lo definisce ufficialmente “autore a colori”. Inizia a collaborare con i giornali di moda: Elle, Esquire, Harper’s Bazaar. E nel frattempo si diverte a raccontare le vie di Manhattan in technicolor. È schivo, silenzioso e del successo non gliene frega nulla. Ama passare giornate intere a ritrarre i vetri appannati dei diner o i finestrini bagnati dei taxi. Studia i riflessi e le silhouette degli ombrelli. Sovrappone i piani e accosta i colori. E quasi senza accorgersene trasforma la Grande Mela in un’opera d’arte astratta e l’inverno in tempo gioioso.

“Certi fotografi - ha detto - pensano che, ritraendo la tristezza delle persone, stiano trattando un tema serio. Io non penso che l’infelicità sia più profonda della felicità”.

La critica (e il mercato) scopre tutta la magia del Saul Leiter “a colori” solo negli anni Ottanta, ma questo ritardo non lo ha mai turbato più di tanto. “Non ho una filosofia tutta mia - spiega a un giornalista - ho solo una macchina fotografica, guardo nell’obbiettivo e scatto. Il risultato è una minima parte di ciò che potrebbe essere raccontato. In fin dei conti, iI miei lavori non sono altro che frammenti di infinite possibilità…”.

Nel 2006 viene stampato il libro Saul Leiter: Early Color, che lo consacra esponente di punta della New Color Photography. Sono raccolte tutte le sue immagini, soprattutto quelle invernali. L’autore, Martin Harrison, lo definisce colui “che ha cercato momenti di quieta umanità nel vortice di Manhattan”. Nel 2012 Thomas Leich gli dedica il documentario In No Great Hurry - 13 Lessons in Life with Saul Leiter.

Saul muore il 26 novembre del 2013 a New York. In inverno. E non potrebbe essere altrimenti.