In un momento non precisato, agli albori del 2020, il gene mutato e poco conosciuto DRD4-7R, di cui sono sicuramente portatrice, è entrato in conflitto, a mia e sua insaputa, con il tristemente noto agente patogeno SARS-CoV-2. Il gene in questione, chiamato anche “gene di Wanderlust” nella sua variante vagabonda, e da me affettuosamente soprannominato, a ragion di indole e cognome, “gene di Manderlust”, pare responsabile della propensione al viaggio in quel 20% della popolazione mondiale, piuttosto irrequieta, che tra le pareti domestiche si sente in gabbia, che tifa per Ulisse e non per Penelope.

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Sanja Marusic
Le immagini di questo racconto sono tratte dal progetto The Night Gardener (2019) della fotografa olandese-croata Sanja Marušić. Col suo stile colorato ed energetico realizza lavori personali e commerciali: tra i suoi committenti, anche il New York Times.

Alcuni chiamano il Wanderlust, da Wander (errare) e Lust (desiderio), più prosaicamente, “mal di casa”, quella sofferenza emotiva che si prova quando si è costretti a stare in cuccia pur sapendo che c’è un mondo là fuori; altri lo definiscono dromomania, nelle sue manifestazioni più nevrotiche. Naturalmente, io credo fermamente nelle teorie scientifiche che considerano il suddetto gene motore delle grandi migrazioni e delle esplorazioni, cioè dell’evoluzione dell’umanità e, con ancora maggior certezza, sposo le teorie psicanalitiche secondo le quali, dopo il parto - prima esperienza di separazione - e il successivo distacco dal rapporto simbiotico con la madre, ogni partenza sia viatico per l’individuazione e il nostro essere-nel-mondo. Ed è qui che il Wanderlust coincide con il Manderlust perché io viaggiando trovo me stessa, l’ho sempre saputo, anche prima che i ricercatori sequenziassero una briciola di Dna e i risultati degli studi venissero pubblicati sulla rivista Evolution and Human Behaviour. È a stare ferma troppo a lungo che mi smarrisco. Mi manca l’altro, mi manca l’altrove.

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Le immagini di queste racconto sono tratte dal progetto The Night Gardener (2019) della fotografa olandese-croata Sanja Marušić

Le alternative al viaggio, ai miei voyage autour de ma chambre, un po’ de Maistre, un po’ casalinga disperata, e le soluzioni improvvisate quanto improbabili neologismi, mi sgomentano.

I nowhere flights, per esempio, inaugurati all’aeroporto di Taipei da Eva Air e China Airlines e subito emulati da altri Paesi: salire su un aereo che non decolla e non atterra ma consumare pranzo e drink serviti da un impeccabile personale di bordo, un po’ come quando da bambina passavo i pomeriggi con gli amichetti nella Citroën Pallas del vicino, il mitico squalo dalle sospensioni che parevano far volare l’auto, facendo finta di andare chissà dove.

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O la staycation, vacanze a km 0, ossimoro dolce per sedentari, parente stretta del togethering, cioè le vacanze con i parenti stretti, possibilmente corregionari, cogliendo la simpatica povertunity di trasformare la necessità in virtù, l’impossibilità di muoversi causa Dpcm e anche per generale depauperamento, ché a stare in pochi a tavola magari si risparmia pure, sul salmone senza dubbio.

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E poi, infinite proposte di tour virtuali che, a dire il vero, esistevano già prima della pandemia a tranquillizzare i meno propensi all’avventura senza rete, risposte tecnologiche alla vecchia Lonely Planet piena di orecchie e sottolineature, succedanei per nomadi digitali diventati giocoforza stanziali. Capisco, se non è possibile visitare di persona un luogo sconosciuto, ci si può affidare a un tour operator etereo, ma tutto questo guardare senza toccare mi pare rasentare il tourism porn, la mortificazione dell’immaginazione e del desiderio che si nutre sempre di vedo-non-vedo. Non nego, tuttavia, di praticare anch’io una forma di perversione, inventata per l’occasione: l’ho chiamata dashboarding e consiste nel passare ore a guardare il Covid-19 Dashboard by the Center for System Science della Johns Hopkins University. Nella speranza che la situazione mondiale migliori scorro velocemente la colonna dei contagi a sinistra, non guardo mai quella di destra per non deprimermi del tutto, mi concentro soprattutto sulla mappa e il suo irresistibile zoom.

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Un ripasso della geografia, il contorno dei Paesi del mondo, quelli già visitati e quelli che suggeriscono buoni propositi per tempi migliori a venire. Ripercorro i frattali dei confini, ripasso gli Stan dell’ex Unione Sovietica che mi confondono sempre, comparo forme bizzarre, l’isola della Nuova Guinea che assomiglia a un dinosauro come Venezia è un pesce e l’Italia uno stivale, vagheggio sulla poesia dei nomi, Samarinda in Indonesia come Samarcanda o Trebisonda, imparo che lo Swaziland dal 2018 si chiama eSwatini. Ricompongo un personale Gondwana, ora che i continenti sono andati alla deriva più che mai. La mappa, per quanto riempita di fantasticherie, però, non è il territorio, insegna
Alfred Korzybski. La mappa non rende conto dell’eccedenza del viaggio, esperienza sempre esorbitante. Degli odori, dei sapori, del coinvolgimento dei sensi, in primis il sesto, quello propriocettivo. Così, ogni giorno, nel mio giro a bordo del dashboard, mio malgrado, mi insospettisco. La Tanzania, ad esempio, dal 29 aprile non aggiorna i dati, 509 erano e 509 sono rimasti, e il presidente Magufuli, rieletto da poco, considera sconfitto il virus, cioè il diavolo, grazie alle preghiere.

C’è da fidarsi? Si tratta della domanda più cocente di questi tempi, eppure, maieuticamente, credo che la domanda contenga la risposta. Il grande mutamento che la pandemia ci impone ha profondamente a che fare con la fiducia. Il viaggio è sempre stato un atto di fiducia, anche prima di questi tempi grami. Per viaggiare bisogna aver fiducia nel mondo e abbastanza fiducia in se stessi per sopportare possibili delusioni. Come in amore.

Ma come si fa ad avere fiducia nell’universo-mondo quando non si può avere nemmeno fiducia nella Regione Lombardia? Come si fa a superare la pisantrofobia, cioè la paura di fidarsi del prossimo, cugina di primo grado di paranoia? Uno dei siti di viaggio da consultare per muoversi si chiama Viaggiare Sicuri, è un servizio dell’Unità di Crisi della Farnesina. Sicuri di cosa?

È un sentimento-ponte, la fiducia, un ponte tra conoscenza e speranza: se so tutto mi fido, se non so niente mi affido, pregando che Dio me la mandi buona. Eppure, è solo abitando questo territorio, terra di mezzo tra cognizioni e emozioni, che si potrà ricominciare a viaggiare. Ma non possiamo esplorarlo da soli. La fiducia che ogni viaggiatore si trova a riporre nell’ignoto, questa volta necessita di uno sforzo del sistema che non può e non deve latitare. Le organizzazioni, le istituzioni, le autorità, i gestori dei mezzi di trasporto, fino al più piccolo proprietario di B&B devono cooperare per ridurre l’incertezza e farsi carico della sicurezza fornendo le informazioni utili a fidarsi e implementando le procedure necessarie a superare la soglia della pura speranza. Il livello individuale è più complesso perché, non potendo contare su una quantità sufficiente di sapere sull’altro, necessita di un investimento emotivo più intenso: devo riconoscere l’altro come passeggero della stessa barca e con lo stesso interesse ad arrivare sano e salvo in porto. La speranza è per se stessi, la fiducia è per l’altro.

Si tratta di uno sforzo di reciprocità che rispolvera la fiducia come fondamento del contratto sociale e un ripensamento delle regole del gioco. È un’operazione difficile perché non può basarsi né sullo slancio né sull’azzardo ma sull’attenzione, forse la stessa che, in un altro cambio di paradigma causato dalla pandemia, fa sì che ora per proteggere le persone che amiamo siamo costretti a tenerle lontane. Chiama in causa la responsabilità di essere cittadini del mondo, tutti ugualmente curiosi, determinati ma vulnerabili, democratici, in una parola, quanto il virus che non fa differenza di censo, razza e religione.

Ci sarà da fidarsi dello sconosciuto del posto accanto che ci toccherà in sorte? E lui, potrà fidarsi di noi? Non c’è altra via, non solo osservare le nuove regole della jetiquette, ma ripensarsi in relazione ai nostri simili, mai come oggi simili a noi. Il mio gene di Manderlust dice che ce la possiamo fare. Anche stavolta usciremo dalla capanna. È un gene ottimista, dopotutto.

L’AUTRICE Marina Mander, triestina trapiantata a Milano, autrice di questo pezzo, ha scritto, tra gli altri, il Catalogo degli addii (et al., 2010), Nessundorma (Mondadori, 2013) e L’età straniera (Marsilio, 2018), selezionato nella dozzina del Premio Strega. Collabora con molti giornali, e insegna alla scuola di scrittura Belleville.