Morire durante la settimana della moda francese e a quattro giorni dal défilé del marchio che aveva il suo nome, lo avrebbe fatto ridere. Kenzo Takada, più conosciuto solo col nome, era stato il primo stilista orientale a imporsi a Parigi, tanto da essere soprannominato (con la solita poca fantasia che contraddistingue i giornalisti di moda) «il più giapponese dei couturier francesi e il più francese dei giapponesi». Così distante dal pessimismo vestimentario dei connazionali che arrivarono dieci anni dopo, lui nel 1970 celebrava la vita, la Natura e il corpo femminile unendo elementi tipici del paese natio e certi vezzi europei dipingendo come una giungla, alla maniera di Rousseau il doganiere, la sua prima boutique: Jungle Jap, in Galérie Vivienne. Altro che chiacchiere sulla body positivity, altro che polemiche sull’appropriazione culturale, altro che controversie sul gender: Kenzo amava talmente tanto le donne, che dopo essersi esercitato nelle palestre estetiche di Cardin, Dior e Chanel (era arrivato in Europa nel ’65) intuì come certe forme di abbigliamento che allora si definivano «esotiche» senza timore di essere politicamente scorretti, potevano benissimo adattarsi alle forme, liberandole dalla dittatura delle taglie. E in più prendeva in prestito i motivi fiorati allegrissimi della tradizione balcanica, i pullover tirolesi, i pocho messicani, le sottovesti occidentali, creando un’immagine di stile – e di stile di vita – che celebrava la gioia di vivere con un multiculturalismo che era sapienza, competenza e bellezza senza passaporto.

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Quando mostrò le sue prime creazioni sbagliò stagione. Nell'aprile del 1973 presentò una collezione invernale alla Bourse de Commerce. Ma al di là dell’aneddoto, che Kenzo raccontava ridendo, questa storia ci parla di una libertà che era istinto, gioia, rifiuto delle convenzioni: le rose, le tigri, le geometrie, le fantasie messe insieme senza regole. È un successo travolgente che lo porta nel 1983, a lanciare la collezione uomo. Nel 1988 arriva il primo profumo, Kenzo de Kenzo, anche se il best seller del brand, Flower by Kenzo, viene lanciato nel 2000. Al suo caschetto di capelli corvini si era aggiunta negli ultimi anni una méche bianca, ma a 81 anni portati divinamente, era rimasto identico: sorridente, gioviale, ottimista.

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Era il migliore interprete di quel concetto di leggerezza che Italo Calvino, nelle Lezioni americane, definisce «gravità senza peso». Perfino quando la finanza entrò col suo solito passo pesante nella foresta incantata della creatività per rilevare il suo marchio, Kenzo non fece tragedie, né alzò lamentazioni: nel 1999 l’ultima sfilata della sua linea disegnata da lui, poi aveva inaugurato La bulle Kenzo sul Pont Neuf, luogo metafisico di trattamenti di bellezza zen, tra massaggi a base di candele, ciotole di riso e tè verde. Dal 2003 si era lanciato in un’avventura nuova, quella di designer di mobili, dal nome che era tutto un programma: K3. «Il kanjii 3, in giapponese, significa equilibrio e armonia», ci spiegò, ma eravamo in molti a pensare che, con quel nome voleva farci capire che era arrivato più in alto del K2. Amava i colori vibranti, il teatro (aveva realizzato i costumi per La course du Temps di Stockhausen nel 1979), il cinema (è stato anche autore di un film, Rêve après rêve nel 1980 e anche in questo è stato un apripista agli attuali direttori creativi che s’inventano fotografi, registi, produttori musicali, artisti). Quinto di sette figli, nato nel ’39 a Hyogo, non lontano da Osaka, avrebbe voluto studiare moda. I suoi genitori glielo impedirono, per indirizzarlo verso lo studio della letteratura inglese. Ma la sua bravura era tale che nel ’58 vinse una borsa di studio per il prestigiosissimo Bunka College di Tokyo. Il resto è storia. «Sono arrivato in Europa senza sapere nulla degli europei», confidò. «Ed è stata una bellissima sorpresa». E giù a ridere.

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L’enorme portata culturale di Kenzo – mai abbastanza riconosciuta dall’intellighentsia, così poco aperta a quella dimostrazione di cultura diffusa che è la moda - è aver ideato un guardaroba globale, invitando a inserire nei nostri armadi alcuni capi emblematici di provenienza non europea o americana, ma che nel loro insieme rappresentano l’attualità reale o immaginaria. Ma destinata a renderci più felici, senza curarsi di misure, generi o geografie. Deanna Veroni, che ha realizzato la sua maglieria, mi ha detto: «Il migliore: un suo disegno era già perfetto per entrare in produzione, eppure non mancava mai di poesia, di humour, di un sottile divertimento, di passione per la Natura». Ed è ironico come proprio colui che aprì le danze alla conversazione con il pianeta e con i suoi abitanti, sia stato ucciso da un nuovo, microscopico e mortale organismo che sulla Terra ha deciso di prendere domicilio.

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