Estate 2021, Parigi: il 17-18-19 e 20 giugno, La Caserne aprirà finalmente con un festival inaugurale i suoi spazi. Nel cuore della ville bohemién-bourgeois, questa antica caserma di pompieri, 4mila metri quadri in tutto, abbandonati da una quindicina d’anni, è stata completamente riabilitata: accoglierà una residency su 3 anni di 25 creatori, degli spazi co-working, uno showroom di tessuti eco-responsabili, a base di materie prime 100% europee e tracciabili ma anche un ristorante vegetariano (ovviamente), una boutique (con selezione di brand sostenibili) un rooftop-orto e un programma di conferenze annuali (il fine settimana). L’imponente silhouette dell’edificio è ben conosciuta dagli abitanti del quartiere, e La Caserne nasce come un luogo aperto, accessibile al pubblico in permanenza. Maeva Bessis, la sua direttrice generale, ci ha raccontato com'è nato e cosa succederà nei prossimi mesi.

In poche parole, cos’è la Caserne?
È uno spazio di 4000 m2 nel decimo arrondissement, un’antica caserma di pompieri trasformata in un acceleratore per la transizione ecologica della moda e del lusso. Nello specifico, abbiamo deciso di accompagnare le marche di moda per fare in modo che producano in modo più responsabile. Per fare ciò lavoriamo su tre assi: l’origine delle materie prime, che rappresentano 70% dell’impatto ecologico, la tracciabilità del prodotto e le quantità di produzione.

25 brand faranno parte della vostra prima residency, tuttei basati in Francia. Parte del progetto è anche valorizzare il savoir-faire francese e rilocalizzare le produzioni?
Tra le marche selezionate, alcune producono già in Francia, come le Slip français o Benjamin Benmoyal. E Domestic fa addirittura del made in Paris! Una delle nostre missioni, comunque, è proprio quella di aiutare le marche a trovare gli interlocutori per poter produrre localmente il più possibile. Ho recentemente partecipato a un gruppo di lavoro sulla re-localizzazione – il rapporto uscirà la settimana prossima – e ci siamo resi conto che una delle problematiche per i brand è proprio quella di trovare i propri partner. Ci sono moltissimi atelier in Francia ma che sono poco conosciuti. I brand hanno poco tempo da consacrare alla ricerca di atelier quindi hanno tendenza a rivolgersi a chi conoscono già. La nostra missione è quindi quella di lavorare sulla ri-localizzazione ma soprattutto di mettere in contatto tutte queste realtà. E bisogna anche dire che in Europa ci sono dei paesi che si sono specializzati in certe tecniche: in Italia, per esempio, si producono dei tessuti lavorati a maglia bellissimi.

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Secondo lei, un vero cambio di rotta sostenibile può essere intrapreso dai grandi marchi del fast fashion?
Chiaramente i brand del cosiddetto fast fashion si basano su un ritmo di collezioni troppo denso per essere veramente sostenibile. Se questi marchi vogliono genuinamente aderire al cambiamento di rotta c’è un lavoro da fare sulle materie prime utilizzate ma non solo, bisogna riflettere anche sulla cadenza delle collezioni proposte. È sempre difficile posizionarsi in modo categorico rispetto a questi «mastodonti» perché si tratta anche di importanti datori di lavoro a livello mondiale, e di grandi datori di lavoro per le donne nello specifico. Per me, bisogna anche riflettere su come questi brand possano garantire une gestione consapevole dei loro atelier di produzione, cioè essere sicuri delle condizioni di lavoro in loco. Ce ne sono attualmente di due tipi: quelli per cui le condizioni di lavoro dei dipendenti sono realmente importanti e quindi organizzano degli audit, dei controlli, estremamente regolari, e si appoggiano su strumenti precisi, penso ad esempio a servizi come Ulula e Fair Makers. Degli strumenti di sondaggio e feedback che fanno risalire le informazioni su come sono trattati gli impiegati, il numero di ore di lavoro, dove sono alloggiati e in che condizioni.

Questo discorso fa eco anche al criterio di tracciabilità annunciato dalla Caserne…
Quando parlo di tracciabilità mi riferisco alla tracciabilità delle materie prime. Cioè conoscere dove, per esempio, il tessuto è stato filato o anche, da quale campo di cotone, idealmente bio, proviene. Disporre di una tracciabilità completa permette al brand di non sovvenzionare le forme di schiavitù moderna. È risaputo, per esempio, che in Uzbekistan il lavoro forzato nei campi di cotone è veramente un inferno. I designer possono oggi assicurarsi che le materie prime utilizzate non provengano da questo tipo di produzioni, e bisogna quindi attivare una tracciabilità. Degli strumenti esistono, come Trasparency-One, per citarne uno. Questa piattaforma funziona come un social network che permette di collegare fra loro i diversi attori della catena di produzione. Ognuno è fortemente invitato a caricarvi i suoi certificati o ancora la quantità di materiale utilizzato, e un sistema di block-chain permette di confermare e validare le informazioni, per assicurarsi una tracciabilità completa.

Per invogliare una consumazione più responsabile è necessaria anche una riflessione sul prezzo?
Credo che il problema sia che il consumatore non conosca il vero prezzo del prodotto. Se si lavora con materie di qualità, e prodotte senza solventi chimici, ecco, tutto questo implica un determinato prezzo. E attualmente questo prezzo, purtroppo, non è riducibile. Ma penso anche che bisogna cominciare a realizzare che non abbiamo più il lusso di non pagare un determinato prezzo, soprattutto per chi ne ha le possibilità. Per pagare meno, credo fermamente anche nel vintage, nel comprare prodotti di seconda mano.

La Caserne
12, rue Philippe de Girard, 75010 Parigi
Apertura a giugno 2021
lacaserneparis.com