La moda inquina: un dato sulla cui gravità ci si trova tutti in accordo. Nonostante ultimamente siano nate voci di dissenso che contestano l'attribuzione alla moda dell'infimo podio di "seconda industria più inquinante del pianeta" – nello specifico quella di Alden Wicker, esperta di moda sostenibile e firma di testate come Vogue Business, Vox e The Cut, che sostiene le ricerche e i dati poi condivisi da fonti autorevoli come la Banca Mondiale, le Nazioni Unite e il Wall Street Journal siano basate su fonti o link non verificabili ed esiste la necessità di dati e ricerche nuovi e affidabili – è insindacabile che il fashion system, nella sua fase di produzione così come in quella di gestione del magazzino, sia lontano dalla sostenibilità, senza neanche toccare il tasto dolente dei diritti umani, spesso violati nell'inconsapevolezza dei brand che, in un'ottica di risparmio, appaltano il lavoro ad aziende estere, nei paesi in via di sviluppo (la pratica nota come off-shoring). Lo scenario è stato illustrato, in tutta la sua gravità, già l'anno scorso, da Dana Thomas, nel libro Fashionopolis: the price of fast fashion and the future of clothes: tra i dati che la scrittrice condivide, quelli che lasciano maggiormente stupiti riguardano l'inquinamento causato dalla coltivazione del cotone, alla base del nostro abbigliamento giornaliero (60% dell'abbigliamento femminile, 75% di quello maschile, 100% nel caso dei jeans): circa 121,4 milioni di balle di cotone sono coltivate a livello mondiale, annualmente, su circa 33,4 milioni di ettari di terra, su più di 100 paesi, con l'India che detiene il primato tra i produttori. Il problema principale è nella quantità di acqua e prodotti chimici utilizzati per trasformarlo nel filato che conosciamo: il cotone non-organico è cresciuto a una dieta rigida di pesticidi e insetticidi estremamente inquinanti, tanto che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato 8 su 10 dei più comuni pesticidi per il cotone usati in America come "pericolosi". Crescere un kilo di questa coltura richiede inoltre circa 10 mila litri di acqua, processarla per trasformarlo in una t-shirt e in un jeans ne richiede quasi il doppio, tanto che, se la produzione di abbigliamento rimane costante, si stima che la richiesta di acqua supererà la disponibilità mondiale del 40% entro il 2030. Una realtà divenuta lapalissiana con la pandemia, e gli appelli di molti designer – Giorgio Armani su tutti – a ripensare il sistema di produzione, senza rincorrere i principali player del fast fashion, capaci di sfornare ogni 15 giorni nuove collezioni con le quali riempire i loro negozi, ma focalizzandosi su prodotti – e anche eventi, come le faraoniche produzioni richiesti dagli show della couture – a-temporali, e per questo carichi di un valore simbolico, oltre che "artigianale".


Ma laddove non esistono (ancora) delle leggi che regolamentino in maniera definita il sistema, senza concedergli via di fuga o giustificazione, cosa resta da fare ai grandi poli del lusso? Autoregolamentarsi. Da questo presupposto nasce il Fashion Pact, compagnia improbabile – che mette insieme Hermès con H&M, Prada e Stella McCartney con Gap – nata l'anno scorso, e che però è riuscita a coinvolgere anche Chanel, maison non affiliata ad alcun gruppo del lusso – la proprietà è di Alain e Gérard Wertheimer, nipoti di Pierre, originario socio d'affari di Coco. Presentato dal CEO di Kering François-Henri Pinault, e benedetto dal presidente francese Macron, il gruppo ha visto la sua introduzione ufficiale in una sede che più "corporate" non si può: il G7 tenutosi a Biarritz. Da quel momento il Fashion Pact ha raddoppiato i firmatari, e adottato una serie di obiettivi comuni, sette, che si dedicano a temi come la tutela della biodiversità, la salvaguardia degli oceani, e il tentativo di ridurre gli effetti nocivi della moda sull'ambiente. «Far accadere le cose richiede lunghe conversazioni» ha detto il presidente di Chanel Bruno Pavlosky a Sarah Kent, autrice del pezzo sul BOF Will self regulations solve fashion sustainability problems? Nello specifico, Pavlovsky ha citato un impegno preso da tutti i firmatari a utilizzare, entro 5 anni, almeno 25% di materiali chiave per la produzione che provengano da fonti a minore impatto climatico. E proprio tra quegli obiettivi, sempre secondo Kent su BOF, c'è il riflesso delle differenze tra le anime che compongono il Fashion Pact. Un terzo dei firmatari, ad esempio, ricorre già, con un percentuale del 50%, a energie provenienti da fonti rinnovabili, un obiettivo che il Pact ha stabilito come raggiungibile per tutti entro il 2025. Se si parla invece di plastica, il 60% ha già eliminato le buste in plastica dai loro store, ma questo anche perché 50 paesi a livello globale le hanno bandite o fortemente regolamentate. L'altro big della moda francese, il gruppo LVMH – che possiede, tra gli altri, marchi come Louis Vuitton, Dior e Fendi – non fa parte della compagine, anche perché, come aveva detto a settembre a Le Figaro, tramite il suo direttore per le politiche ambientali Antoine Arnault, "abbiamo un dipartimento interno dedicato all'ambiente da quasi 30 anni, e i nostri sforzi per ridurre l'inquinamento sono tra i più imponenti di categoria": in effetti, secondo il report sulla sostenibilità del 2019 del gruppo, nel 2018 sono stati raddoppiati i fondi concessi ai marchi di sua proprietà (11,3 milioni di euro destinati a 112 progetti lanciati da 28 maison per ridurre le loro emissioni di gas serra), e si è stipulata una partnership quinquennale con l'UNESCO per sostenere il suo programma a protezione della biodiversità, "Man and the biosphere" .

La domanda che è lecito porsi è se queste restrizioni e nuove sfide a cui il Fashion Pact si approccia tramite la creazione di una alleanza sono in qualunque modo quantificabili, verificabili, obbligatorie. Ovviamente i brand possono o meno scegliere di entrare a far parte della squadra dei virtuosi, alleatisi nel Fashion Pact; quando lo fanno però, possono anche scegliere come soddisferanno gli obiettivi del gruppo, e non c'è un reale obbligo di rispondere delle proprie azioni – o della loro mancanza – se quegli obiettivi non vengono raggiunti. Sembra lo stesso problema citato solo l'anno scorso sempre da Dana Thomas nel libro Fashionopolis, che si concentra molto però sui marchi del fast fashion, abituati a produrre quantitativi molto superiori di capi, e sul prezzo umano che ne consegue, citando le iniziative nate a seguito del crollo di Rana Plaza, nel 2013 (nella struttura in Bangladesh si fabbricava abbigliamento per molti marchi del fast fashion) e dell'incendio nel 2012 di Tazreen, fabbrica a Dhaka dove si producevano t-shirt, polo e camicie per diversi brand internazionali. I brand coinvolti – in maniera inconsapevole, perché molto spesso le aziende estere alle quali si appaltano gli ordini, a loro volta, subappaltano ad altri, in una catena dove, a diminuire tra un passaggio e l'altro è l'attenzione all'ambiente e alle misure minime di sicurezza - decisero di firmare un accordo, The accord on fire and building safety. Ai 43 membri iniziali – tra i quali figuravano Primark, Inditex, Abercrombie & Fitch, H&M – si unirono nel tempo molti altri nomi, arrivando a un documento approvato da 200 firmatari. Molti brand americani, però, preferirono non firmare, citando problemi "etici e di responsabilità" e si unirono all'Alliance for Bangladesh Worker Safety, accordo dai contorni similari, lanciato da Walmart, e condiviso poi da brand come Gap, Target, Hudson's Bay Company (che possiede Saks Fifth Avenue) e la Corporation VF ( che detiene la proprietà di Wrangler, Lee Jeans, North Face e Timberland). Il problema dell'Alliance? Che non è legalmente vincolante, e, secondo Thomas «le ONG la vedevano come meno efficiente, e sincera, dell'Accord on fire and building safety. Era di proporzioni più ridotte, e funzionava con aziende di proporzioni minori, ma soprattutto, era "volontaria, un sistema che, i continui incendi e crolli avevano mostrato come inutile». Certo, l'impegno economico delle grandi maison del lusso, i loro dipartimenti di sperimentazione scientifica all'avanguardia, possono fare già la differenza, nel garantire l'efficienza e la bontà di un'alleanza virtuosa come il Fashion Pact, ma mettere sullo stesso piano della bilancia l'attenzione all'ambiente con il perseguimento dei profitti economici – tanto più difficili e, per questo, ambiti, adesso –sperando di trovare un equilibrio, è materia ardua. La difficoltà è acuita dai modelli aziendali dei conglomerati e delle grandi maison, dediti alla ricerca costante della crescita globale, in contrasto con la necessità ambientale e umana di valorizzare invece le realtà all'interno dei propri confini, più facili da regolamentare, e le maestranze artigianali locali. Se è meritevole di encomio l'impegno profuso da singoli giocatori diverrebbe di certo più rilevante a livello globale, se potenziato dal sostegno di un'intera squadra, dove figurano anche i suoi principali competitor, nel nome dell'unico obiettivo sul quale si possa fare fronte comune: quello di garantire un futuro alle prossime generazioni (di acquirenti). D'altra parte, anche quando le squadre riescono a formarsi, come nel caso del Fashion Pact, laddove tutto viene lasciato alla "volontarietà", e non diventa obbligatorio, una sorta di conditio sine qua non per fregiarsi del titolo di appartenente a un conclave così virtuoso, quella potenzialità di influenza globale, che potrebbe forse condizionare anche le politiche nazionali, non riesce ad esprimersi. Lasciando tutti liberi, ma privi della possibilità di cambiare il corso del futuro?