Se il 2020 è stato un annus horribilis per la moda in generale, per alcuni brand neonati è stata un'opportunità: quella di (re)inventarsi, mettendo le basi per un modello solido, strutturato, e soprattutto lento. Lo slow-fashion, quello che costruisce (o ricostruisce) un rapporto affettivo tra i capi d'abbigliamento e i loro proprietari, sta in effetti divenendo una tendenza, sottolineata anche dal report del Bof The state of fashion 2021. Laddove i grandi marchi sono comunque riusciti a trovare – grazie alla loro mastodontica struttura e agli investimenti in materia di comunicazione – il modo per rimanere rilevanti anche nell'anno della pandemia, quelli di media grandezza, impantanati da volumi ragguardevoli di merce da smaltire e negozi da sostenere, stanno invece faticando maggiormente: a cogliere l'opportunità, paradossalmente, sono i nuovi arrivati, capaci di farsi notare dal mondo tramite i social, con un'estetica instagrammabile, e un approccio sostenibile, che riescono ad adottare all'intera catena produttiva. Se Telfar è il caso dell'anno – le sue borse vanno in regolare sold out, il brand non riesce a stare dietro agli ordini tanto che ha ideato un bag security program, per garantire a tutti la possibilità di sfoggiare una "Birkin di Bushwick", come ormai viene chiamato l'accessorio, a patto di aspettare e rispettare i tempi di produzione – la filosofia che contraddistingue tutte queste new entry punta su un business "made to order". Nella pratica, i pezzi non vanno in produzione fin quando non vengono acquistati (spessissimo online, visto che, data la giovane età, queste realtà non sono distribuite che tramite il loro canale di e-commerce). Bionda Castana, ad esempio, era già nato nel 2008, ed è tornato di recente, dopo una pausa di due anni che ha consentito alle sue fondatrici, Jennifer Portman e Natalia Barbieri di ripensare il modello di distribuzione, puntando già dal 2016 sul direct-to-consumer: con gli scarti del loro archivio, si creano ogni mese quattro modelli in edizione limitata che le clienti potranno pre-ordinare, prima della loro effettiva messa in produzione, dando l'opportunità al brand di ridurre gli sprechi a 0. Prodotte in Italia, ci vogliono 3 settimane affinché le slingback e i sandali siano pronti: e non pare essere un problema per delle clienti, che, consapevolmente, scelgono di aspettare per godersi un pezzo "unico".

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Se alcuni brand come Cawley Studio si sono riconvertiti alla produzione su richiesta durante il lockdown, altri sono nati con le idee chiare, chiarissime: Chalsie Joan, il cui lancio è del 2020, è cominciato come un sogno coltivato nella camera da letto degli ospiti dell'omonima fondatrice, che cuciva da sola le sue bluse dal fascino boho-chic. Realizzate con tessuti naturali e a km 0 (vengono da Birmingham, luogo di nascita del brand), l'unicità dei pezzi ha convinto il pubblico di Instagram, conquistato, in tempi di velocità bulimiche, dalla lentezza amorevole con la quale si costruisce ogni pezzo. Per questo, in allegato, sull'etichetta, c'è scritto a chiare lettere il tempo necessario per realizzare il top, la sua composizione, e l'ufficiale data di nascita.

E mettere nero su bianco il proprio impegno è divenuta pratica comune anche da Maison Cléo, brand francese a conduzione familiare (guidato da madre e figlia). Lavorando già nell'industria modaiola, consapevole e disgustata dagli sprechi e dai margini di profitto, Marie Dewet ha così deciso di affidarsi alla sua genitrice, sarta professionista, e creare sognanti bluse con maniche a sbuffo, cardigan avvolgenti e vestiti floreali, utilizzando tessuti di stock, vintage, o riciclati, con il pizzo che arriva da Calais, luogo di nascita di Dewet. Intercettate subito dall'occhio attento all'estetica – ma anche alle problematiche ambientali – di Emily Ratajkowski, già nel 2019 Maison Cléo ha lanciato una collezione speciale con Net-a-Porter, andata subito sold out grazie a una clientela fedele, ma soprattutto consapevole. E a favorire la transizione tra un jeans a 19,99 e una giacca in lana rosa shocking da 255 euro, è di certo anche l'onestà con la quale il brand ha elencato, sullo scontrino allegato a ogni capo, i costi che contribuiscono al prezzo finale, divisi per voci: da quello di semplice realizzazione del pezzo, al mantenimento del sito web, alle tasse di spedizione e quelle legate alla transazione su Paypal, e infine, i costi del lavoro, utili a garantire una paga equa ai suoi (pochi) collaboratori, buon esempio seguito a ruota da By Megan Crosby, brand inglese che stampa i suoi colori lisergici su vestiti a quadri e pantaloni con una sognante stampa a nuvole.

E in effetti, non si tratta qui, soltanto, di un'alternativa obbligata, viste le problematiche ambientali divenute oggetto delle discussioni di buona parte di questo 2020: la sostenibilità, in fondo, è legata anche a delle pratiche trasparenti nel trattamento della propria forza lavoro, alla quale si garantisce una paga adeguata. A renderlo possibile, in questo caso, è il fatto di assumere dipendenti – e con questi brand si tratta al massimo di una decina di sarte – che lavorano nell'immediata prossimità della sede: di conseguenza è possibile abdicare alla nefasta pratica dell'offshoring, nata negli Anni 80, quella cioè di appaltare la produzione in paesi esteri, molto spesso in Cina, Vietnam e Bangladesh, dove il costo del lavoro è minore, ed è molto minore anche il rispetto dei diritti umani degli operai, come ha dimostrato il crollo del Rana Plaza di Savar, in Bangladesh. Nell'edificio, già pericolante, erano stati chiusi i negozi e gli uffici ma erano rimaste aperte, per volontà dei proprietari, le fabbriche tessili, con gli operai costretti a lavorare in costante pericolo: quando l'edificio collassò, nel 2013, morirono 1219 persone, per lo più donne e i loro figli, ospitati negli asili nido aziendali, e ad oggi è considerato il più grande incidente mortale in una fabbrica tessile, anche se purtroppo non è stato l'unico. L'evento ha portato alla luce le condizioni già note, ma spesso taciute, dei lavoratori del tessile nei paesi orientali, a cui spesso si affidano molte aziende del fast fashion, scatenando un'ondata d'indignazione. Altra spinosa problematica del fast fashion, quella della mancanza di inclusività nell'ambito delle taglie, ha convinto Mary Benson a lanciare un marchio made-to-order che realizza abiti in velluto stampati dalla 36 alla 54, adeguandosi alle forme delle sue clienti senza fare un plissé, tranne che sul tessuto, e offrendo, nel caso, un ulteriore servizio su misura per soddisfare ogni desiderio. Ma il modello del made-to-order, alla fine, funziona? Sì, nella misura nella quale chi lo promuove, sceglie consapevolmente una strada che li porterà nei cuori dei propri clienti, con i quali si crea un rapporto di affezione destinato a durare, ma lontano dal successo commerciale di massa. Il punto, a ben pensarci, è proprio questo: seppure alcune di queste realtà, come Maison Cléo e Olivia Rose The Label siano già finite nell'area di interesse di giganti come Net-a-Porter e Selfridges, il loro valore aggiunto è nella cura che viene dedicata ad ogni pezzo. E che non potrebbe essere la stessa, se si raggiungessero i volumi produttivi di marchi più strutturati.

Un approccio più minimalista, newyorchese, e per questo già amato e indossato da Meghan Markle, è quello di Misha Nonoo. Nella collezione ci sono otto capi essenziali, dalla "camicia del marito" al blazer nero, combinati per formare 22 look diversi, e quindi, idealmente, un intero guardaroba. Capace di evadere un ordine entro 5 giorni, le pratiche di lavoro sono etiche e i tessuti sostenibili, inserendosi in quella fascia prezzo definita come "lusso accessibile", distante dai prezzi inarrivabili delle maison, così come dalla qualità (o dalla sua mancanza) di tessuti e trasparenza del fast-fashion. Se Misha Nonoo guarda a una self made-woman, che abita consapevolmente la città, in generale l'estetica che traspare è però più naturalista, a contatto con i grandi spazi aperti, composta di vestiti e gonne ampie perfette per i prossimi picnic e le estati che verranno, nel rispetto del distanziamento: dalle bluse con maniche a sbuffo di Benjamin Fox ai vestiti di Before July, la sensazione è sempre quella di trovarsi in un video di Lana Del Rey, il sole della California che brucia la pelle, e un filtro Sierra applicato indistintamente su albe e tramonti vista oceano. D'altronde se bisogna immaginarsi un mondo diverso, perché non immaginarlo perfetto?