Dal 2011 Alice Rohrwacher non ha mai smesso di raccontare, diventando una delle interpreti maggiormente sensibili e internazionali del cinema italiano. Lo dicono oramai i suoi lavori, tre fino ad oggi importanti, ognuno legato da un filo conduttore, famigliare, femminile, universale, sintesi di come sia stata brava ad attendere il momento, con semplicità, riuscendo, come poche poi, a descrivere sentimenti e volti.

Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher (in sala dal 31 maggio), vincitrice della miglior sceneggiatura (ex aequo con Jafar Panahi) al recente Festival di Cannes, è così la nuova testimonianza di un percorso all’insegna della ricerca, trasversale, atemporale, proprio come la stessa regista. Fino ad oggi erano le sue donne, bambine, adolescenti, ad aver conquistato l’immaginario. Basta ricordare il debutto fulminante con Corpo Celeste, ispirato dall’omonimo romanzo di Anna Maria Cortese, dove la “sua” Marta, tredicenne, andava contro le velleità delle coetanee (fare la valletta) cercando invece una propria indipendenza spirituale e personale.

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Protagoniste assolute, fragili e forti, in evoluzione, loro, come anche la Gelsomina de Le meraviglie (la pellicola vinse Grand Prix Speciale della Giuria nel 2014 proprio sulla Croisette) tentata dall’apparenza (la televisione) e Monica Bellucci, rimasta alla fine però fedele alle proprie radici e affetti. Ecco che allora questi elementi sembrano ritornare nel nuovo film di Alice Rohrwacher, dando però una virata, diversa, a un volto maschile, Lazzaro appunto, interpretato dall’ottimo esordiente Adriano Tardiolo, contadino generoso inserito in un paesaggio arcaico dove uomini, donne, braccianti, ragazzi, ragazze, vengono però sfruttati, senza saperlo, da una cinica marchesa, Nicoletta Braschi.

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In quel mondo antico Lazzaro è l’ultimo della fila, il primo però a dare una mano, a fidarsi dell’amicizia con Tancredi, il figlio della proprietaria, diventando suo malgrado poi la metafora (rinata e incarnata nella periferia contemporanea) di un modo di essere, buono, altruista e di valori. Per la prima volta l’universo femminile riappare meno dirompente, diviso comunque tra chi esercita il proprio potere, meschinamente, e chi invece dopo anni (Alba Rohrwacher) riscopre l’essenza perduta.

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Rohrwacher ricostruisce uno spaccato unico, emotivo, guardando ad Ermanno Olmi, PierPaolo Pasolini, Bertolucci con Novecento, e forse un po’ a Fellini, il sogno, prendendo di fatto le idee direttamente dall’animo umano. Lontano però da ogni sorta di stereotipo, il suo Lazzaro sa crescere, fa quasi venire in mente parallelamente la Violetta Valery de La Traviata, messa in scena a teatro proprio da lei, il suo aspetto puro e di verità, agganciata alle realtà, bisognosa soprattutto di interrogarsi, com’è la sua autrice, su ciò che la circonda. Facendo, oggi, la differenza.

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