Una delle cose strane, e non particolarmente piacevoli, dell’allevare dei figli è quello che vorrei chiamare il capogiro retrospettivo. Un movimento frastornante, a metà fra presente e passato, così intenso da far venire la nausea eppure, alla sua maniera dolorosa, istruttivo. Ad esempio: invito a casa la mia più vecchia amica, Sarah, i nostri bambini corrono di qua e di là, divertendosi fondamentalmente fra loro, mentre noi, furtive, fumiamo e beviamo una bottiglia di vino bianco e cominciamo a dirne di tutti i colori sui nostri amici e a scoppiare in fragorose risate, e poi i bambini rientrano nella stanza dove siamo e io li costringo a chiamare questa mia migliore amica «zia Sarah» e loro sono profondamente scettici ma io ignoro le loro obiezioni - nonché tutte le richieste di preparare la cena - e continuo a parlare a voce molto alta e a ridere un sacco e nel bel mezzo di tutto questo penso: Ah, adesso capisco! Ecco com’erano mamma e «zia» Ruth; ed ecco perché, dopo le sei di sera, smettevano di darci ordini e ci facevano rimanere svegli un paio d’ore in più del solito, finché qualcuno non si faceva venire in mente di mettere in forno una pizza surgelata; ah, adesso capisco. Erano migliori amiche, mamma e Ruth, da prima che nascessimo noi, e tutte e due lavoravano tanto e avevano poco tempo, perciò quando si vedevano era un’occasione speciale. Gli piaceva chiacchierare fra loro. Erano esseri umani di sesso femminile con molti altri interessi al di là dei figli. Ed erano un po’ ubriache di vino bianco da quattro soldi.

Ah, ecco. Il comportamento di un genitore che trent’anni fa mi appariva del tutto misterioso adesso mi diventa all’improvviso chiaro. Negli ultimi tempi mi capita sempre più spesso. Magari sono le quattro di domenica pomeriggio, e dopo 48 ore interamente dedicate a star dietro ai bambini, cado in un buco nero, quasi un abisso da aspirante suicida,e loro rimangono confusi: in risposta a una domanda ottengono uno sguardo vitreo o un monosillabo. E poi, di punto in bianco, scatto in piedi e comincio a strillargli contro per qualche problema minuscolo e insignificante - e mentre sono lì che urlo una parte di me salta all’indietro, con quel capogiro retrospettivo, e penso: Ah, ecco, è così che si sentiva mia madre, trent’anni fa. Ecco perché all’improvviso si azzittiva e si metteva a fissare il muro. Non riusciva a sopportare un secondo di più. Un secondo di più di bambini che litigano urlando su chi ha preso cosa, e cosa è giusto e non è giusto, e le continue richieste e i drammi inutili, e la sensazione di non avere neanche un secondo per te stessa, e nel frattempo in tv c’è lo stesso programma ogni giorno con la stessa cazzo di sigletta... Ah, ecco. Adesso è tutto chiaro. E mia madre ne aveva tre. Più un matrimonio molto infelice e ben pochi degli sfoghi e delle libertà che io do per scontati. E aveva ventinove anni. Il capogiro retrospettivo porta alla lucidità retrospettiva.

Nessuno esce da una famiglia intero, bisogna per forza sacrificare
qualcosa

Man mano che l’immagine del passato si mette a fuoco vedo una stanza in particolare in una luce nuova, semitragica: il bagno di casa dei miei. Non era molto grande - circa quattro metri per tre - ma adesso capisco quanto doveva contenere. Da una parte era solo un bagnetto, decorato in tema vagamente «marino» - una conchiglia qua, un pezzo di corallo là: il tipo di oggetti che agli inglesi piace vedere nel proprio bagno. Ma per i miei genitori era anche una sorta di luogo dei sogni, in cui si mescolavano ricordo e desiderio [...]. Il contributo di mia madre erano le piante. Verdi, dall’aria tropicale e decisamente ipertrofiche: tuberi che spuntavano dal terreno e a volte si allungavano fino al vaso accanto, dove crescevano ancora, e ogni volta che ti facevi il bagno dovevi vedertela con quei tralci di vegetazione e gli insetti che attiravano, specie d’estate. [...] Verde che cresceva sul verde che cresceva sul verde, con rigoglioso abbandono. La potatura non faceva altro che velocizzare il processo. Trent’anni dopo, mentre prendevo parte a un festival letterario in Giamaica, mi sono ritrovata in mezzo a un sacco di verde che cresceva sul verde che cresceva sul verde e sono stata catapultata, dal ricordo, in quell’angolo di un bagno straniero che era rimasto per sempre... la Giamaica. Eppure non mi era mai passato per la testa, da bambina, che mia madre potesse avere nostalgia del suo paese. I bambini sono talmente narcisisti: non li sfiora mai il pensiero delle altre persone, tantomeno dei propri genitori. E non mi aveva mai sfiorato neanche il pensiero che ci fosse qualcosa di interessante nel fatto che mio padre usava quella stessa stanzetta come camera oscura.

Vedevo mio padre rinunciare alle sue passioni, ma ora so
che la mia stabilità è merito suo




La cosa non mi incuriosiva per niente. La prima volta che mi ero anche solo accorta di cosa stava facendo era stata quando l’avevo disturbato per caso: ero entrata in bagno [...] e avevo trovato la stanza immersa nel buio più totale, fatta eccezione per uno strano chiarore rossastro. Mio padre urlò: «Chiudi la porta, per la miseria!» Io obbedii, ma restai dentro. Davanti ai miei occhi, uno strano quadro: mio padre con le maniche arrotolate, la vasca da bagno piena di liquido, e questa luce rossa che trasformava i puliti contorni Habitat della nostra casa moderna in qualcosa di sotterraneo e, per me, inquietante. Che cosa ci faceva dentro casa nostra questa stanza segreta? Alzai gli occhi e vidi che mio padre aveva teso un filo per i panni in mezzo alle piante, da una parete all’altra. Vi aveva appeso dei grandi fogli di provini fotografici sui quali pian piano stavano affiorando delle immagini. Non avevo mai assistito a questo processo e rimasi con gli occhi sbarrati, chiedendomi cosa stava per succedere. Per tutta la mia infanzia avevo sperato che mio padre possedesse un qualche talento artistico nascosto: era forse questo?

Ma quando le immagini affiorarono sulla carta scoprii che erano tutte foto di noi. Di me, mio fratello Ben e mio fratello Luke, ripetuti un’infinità di volte. Sparpagliate intorno alla base del water c’erano tante confezioni di rullini Ilford da ventiquattro pose, in bianco e nero. E anche quelle, scoprii, erano tutte foto di noi. Rimasi delusa. Sapevo, vagamente, che un tempo mio padre aveva sognato di fare carriera come fotografo; molto più tardi avrei appreso che quei sogni si erano brevemente concretizzati, ma molti anni prima che nascessimo noi. Quando ci trasferimmo nella villetta bifamiliare mio padre era un fotografo tanto quanto è un calciatore professionista il papà che gioca a calcetto con gli amici. Ogni ambizione su quel versante era stata abbandonata. Adesso ruotava tutto intorno a noi, tutto era stato sottomesso alla vita familiare e riplasmato attorno a quella. Vita familiare per la quale, da piccola, nutrivo solo disprezzo, anche se ne traevo benefici. Che mio padre fosse un uomo noioso, affidabile e con la testa sulle spalle, capace di rimandare all’infinito i propri piaceri e le proprie ambizioni, è, penso ora, il fondamento di tutta la stabilità emotiva che sono stata in grado di mantenere nella vita. Ma all’epoca la sua incapacità - o il suo rifiuto - di vivere per sé stesso mi riempiva di orrore. Per il bene dei bambini era un’espressione che detestavo particolarmente: sembrava una cosa che la gente diceva per liberarsi dalla responsabilità di vivere davvero in base ai propri desideri e alle proprie idee, o di seguire le proprie doti innate. Rimanere sposato a una persona che in pratica non sopportavi - per dodici anni! - per il bene dei bambini! Che razza di follia era? Eppure adesso, nel capogiro retrospettivo, vedo con occhi nuovi la devozione dei miei genitori a questo principio. Io non ne sarei comunque capace, ma capisco perché abbiano agito in un certo modo. Tutti e due erano cresciuti senza padre - una mancanza devastante, in entrambi i casi. Per dirla con un altro tipico cliché piccolo borghese, per me volevano una vita migliore.

In queste vicende ci sono ovviamente molte gradazioni, ma sono convinta che ogni casa di famiglia sia un luogo emotivamente violento, pieno di rabbia repressa, punteggiato di profonde delusioni personali. È nella natura delle cose che nessuno esca da una famiglia intero, o portandosi dietro tutto ciò che vuole. Ripenso a quella battuta stupenda di Jerry Seinfeld: «Il divertimento per tutta la famiglia non esiste». Qualcuno deve per forza rinunciare a qualcosa: è solo questione di quanto, e in nome di chi. Nei momenti di capogiro retrospettivo vedo chiaramente che i miei genitori mi hanno dato molto di più di quanto considero ragionevole dare a chiunque, e di gran lunga di più di quanto sono capace di dare io ai miei figli. Perché, sebbene a prima vista possa sembrare che io dia ai miei figli tanto di più, in ogni campo: più denaro, più «opportunità», sicuramente più vacanze, senz’altro più spazio, i miei genitori mi hanno dato la loro vita. Per mio padre, i bambini e la vita domestica hanno soppiantato l’attività artistica. E per mia madre un nuovo paese ha soppiantato quello vecchio, che lo volesse o no è andata così. Io non ho dovuto fare niente che somigliasse a queste scelte nette di vita. I miei genitori erano totalmente immersi in quello spazio conteso dove gli adulti vivono fianco a fianco con i bambini, ciascuno cercando di realizzare le proprie ambizioni, ciascuno provando a «vivere la propria vita» e ad «avere tempo» - piante tropicali qua, fogli di provini là - senza che nessuno ottenga mai tutto ciò che vuole. Anch’io adesso vivo in uno spazio conteso con dei bambini, ma le battaglie nel mio caso sono mille volte meno cruente.

Quando ripenso ai miei genitori è spesso con un po’ di senso di colpa: io ho fatto le cose che loro non sono mai riusciti a fare, e le ho fatte sotto i loro occhi, usando il loro tempo, come se loro stessi non fossero altro che questo, dei segnatempo, e non persone separate da me che vivevano il tempo sempre più breve della loro esistenza. Questo vale specialmente per mio padre, se non altro perché il tempo della sua vita ormai è finito. Mia madre ha ricevuto la sua istruzione da adulta e adesso, ancora abbastanza giovane, può dedicarsi ai suoi interessi e ai suoi capricci, con la relativa sicurezza di chi si avvicina alla pensione pubblica che si è guadagnata con trent’anni di lavoro. Viaggia, vive: scrive, addirittura. Ma mio padre ha aspettato tutta la vita di veder comparire sul foglio di carta fotografica una certa immagine di sé, e non è mai successo. È comparsa invece la mia immagine, e quella di mio fratello Ben, e di mio fratello Luke. Se mio padre era una sorta di artista - e ho la sensazione che lo fosse - la sua arte era confinata in quel bagno, e poi è morta con lui. Intanto, mentre batto al computer questo pezzo, mia madre sta scrivendo un romanzo sulla Giamaica. E i miei figli, be’, devono vivere in mezzo e intorno e dentro all’attività creativa dei genitori: devono sentirci parlare dei libri che stiamo leggendo o scrivendo, dei film che abbiamo visto e di quelli che vogliamo scrivere, e hanno sempre saputo, fin dall’inizio, di non essere le uniche cose che vengono create, accudite e curate nelle molte stanze della nostra casa. Se questo sia un bene o un male per loro - o per noi - non lo so. Ma ho l’impressione che per quante stanze uno abbia, e per quanti libri, film e canzoni decantino la bellezza della sana vita familiare, la verità sia che «la famiglia» è sempre un fatto di una certa violenza. Solo a distanza di anni, con quel capogiro retrospettivo, si arriva a capire chi è rimasto ferito, come e quanto gravemente.

© Zadie Smith, 2018 © SUR, 2018

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Courtesy SUR

Zadie Smith è nata a Londra nel 1975, e il suo libro d’esordio Denti Bianchi, è stato un caso internazionale. È autrice di romanzi (l’ultimo è Swing Time), racconti, saggi e insegna scrittura creativa alla New York University. Il testo di queste pagine è tratto da Il bagno, uno dei saggi contenuti in Feel Free (Edizioni SUR, e 20), in libreria dal 6 settembre.