Porto con me un amico, un attore. Fa anche il regista e ci tiene molto a conoscerti. Basta che vieni tu.

Come si chiama? Sean Penn.

E chi è? Non l’ho mai sentito nominare.

È quello che ha fatto 21 grammi.

Va bene, porta chi ti pare. Basta che vieni tu.

Questo è lo scambio di messaggi tra Kate del Castillo e il boss messicano della coca “El Chapo” Guzmán. Ho dovuto rileggerlo un paio di volte prima di crederci. Da una parte la bella giornalista a caccia dello scoop del secolo che si porta appresso uno degli attori più celebri del pianeta, dall’altro il rozzo criminale che al massimo si è fermato a qualche stucchevole telenovela colombiana. E lì ho capito perché Sean Penn morisse dalla voglia di andarlo a incontrare nel cuore della Sierra Madre, rischiando l’arresto e non solo.

Ho conosciuto Sean Penn una decina di anni fa a Cannes, durante il Festival, e di tutte le star di Hollywood che mi è capitato di incrociare è quello che più di ogni altro aderisce all’idea che ti sei fatto di lui. Un bicchiere di scotch a portata di mano, una strepitosa ventenne brasiliana che avrebbe potuto uccidere pur di finirgli accanto per una foto ricordo e lo sguardo di chi ha rinunciato a scaricarsi di dosso tutti i rimpianti.

Non ride molto Sean Penn, ha una percezione così intensa di sé che suppongo gli sia impossibile immaginare qualcuno – seppure in mezzo alla giungla messicana, e in fuga da tutte le polizie del mondo – che non sappia della sua esistenza. Così l’intervista al pericolo pubblico numero uno diventa una sfida.

Sean Penn adora le sfide. Il viaggio in incognito verso “El Chapo” Guzmán racchiude tutto il disperato, ed egocentrico, bisogno di battersi per una causa. Meglio se è persa.

Sean Penn risulta dunque odioso e adorabile nello stesso tempo. Ed è l’unica star di Hollywood che ha rovesciato i fattori: è un interprete della vita di tutti i giorni e lascia affiorare se stesso, quello autentico, solo nel corpo dei personaggi che gli affidano. È un illusionista dell’anima, rende impossibile per chiunque catturarne la vera identità. E infatti tutti i suoi personaggi sono una sfida senza appello. Di più. Sono dei corpo a corpo col destino: il boss della mafia, l’avvocato sprezzante, il gay, il disabile, il pistolero, la spia. Eccetera. Ogni ruolo è un passo oltre il limite, il bisogno fisico di lasciare una traccia.

Che poi tutto ciò risulti maledettamente irresistibile agli occhi delle donne, è una conseguenza. Fenomenologia di Sean Penn. L’illustre galleria di mogli e amanti che l’hanno accompagnato è la prova che questa sua contrita diversità dal resto del branco è un’arma micidiale. L’uomo è pieno di falle, ma le mostra come medaglie raccolte durante una serie di battaglie dalle quali esce sempre sconfitto. Finiscono tutte per lasciarlo, da Madonna a Charlize Theron, passando per Robin Wright e Scarlett Johansson. Nessuna di loro aprirà una finestra sul passato con rimpianto. Ne è valsa la pena, comunque.

La cantante Jewel, nel suo libro di memorie, svela uno Sean Penn inedito, persino goffo nella sua eroica ricerca della felicità. Un giorno prese il telefono e chiamò il padre a casa di lei in Alaska, il cantante Atz Kilcher: “Mi passi sua figlia” gli disse “sono un suo fan e sono innamorato di lei”. Atz chiamò la figlia scuotendo la testa. “C’è un pazzo che ti cerca. Ma che razza di gente conosci?”. Non si conoscevano ancora a dire il vero, si fidanzarono per un po’. Oggi lei confessa che una parte di sé lo amerà per sempre.

L’universo si divide a metà: quelli appunto che lo adorano senza riserve e quelli che lo detestano. E Sean Penn sembra trarre molta più ispirazione da questi ultimi. Fare da spalla a gente come Hugo Chavez e Fidel Castro, non è esattamente il tipo di strategia che in America ti fa aggiungere follower al tuo profilo. Mettersi a caccia di un assassino di professione per strappargli un’inedita confessione, è uno sputo in faccia alle famiglie dei morti e una nuova squalifica da parte dell’establishment dalle parti di Los Angeles.

A renderlo umano, forse persino simpatico a tratti, è quella sua passione sfrenata per l’underdog. Lo sfavorito di turno. Puntare sempre sul cavallo perdente ha il suo fascino, i suoi vantaggi. Ti preserva dall’ordinario, che per Sean deve essere come una specie di malattia infettiva. Questo suo slancio inconsulto verso il lato debole di ogni umana vertenza, lo porta a difendere senza senso gli argentini che rivogliono mettere le mani sulle Falkland, così come le popolazioni dilapidate dopo il terremoto di Haiti. Sempre col petto in fuori. E - se serve - le mani pronte a entrare in azione.

E così nel suo fitto curriculum, Sean mostra fiero pure 33 giorni di prigione, 300 ore di servizi socialmente utili e 36 ore di terapia per il controllo della rabbia, con uno specialista di grido.

Già, la rabbia. Quella è la sua unica fedele e costante compagna di viaggio. E come sempre, per scoprirne la genesi, bisogna affondare nell’infanzia, nel ricordo di papà Leo, il suo modello assoluto di riferimento. Una volta l’ho sentito parlare di suo padre, l’eroe della Seconda Guerra Mondiale. Partecipò a 37 missioni volando sopra la Germania per bombardarla. “Trentasette missioni!” Aveva ripetuto almeno tre volte Sean infatuato. Aveva ragione a scaldarsi. A ogni aviere era richiesto un minimo di 7 missioni, numero oltre il quale essere colpiti dalla contraerea nemica diventava una certezza. A quota sette le incursioni venivano effettuate solo da volontari. Leo Penn arrivò a 37 - appunto - e fu abbattuto un paio di volte. Se la cavò sempre saltando per tempo col paracadute. Tornò in patria come un eroe, ma durò poco. Gli bastò dichiarare il sostegno al sindacato degli attori appena nato a Hollywood per finire nella lista nera dei “comunisti”. Non riuscì mai a lavorare come attore, il suo sogno. Finì con l’aprire una panetteria. Il figlio imparò assieme ai primi passi a coltivare una rabbia inconsolabile. “Neppure oggi” denuncia Sean “ho ricevuto una spiegazione e neppure il minimo accenno di scuse per quello che hanno inflitto a un uomo che ha quasi dato la vita per questo Paese. “Neppure oggi”.

Nel mondo di Sean Penn non esistono zone grigie, solo linee tracciate di netto e ossessioni come la certezza di essere costantemente pedinato e di conseguenza l’esigenza di girare armato. Quando si è innamorato in modo quasi bellicoso di Charlize Theron è stato perché si è specchiato nelle ferite di lei, la stessa adolescenza un po’ convulsa, un altro tipo di patologia paterna, un uomo violento ucciso a pistolettate dalla madre davanti ai suoi occhi. “Devi vendere tutte quelle pistole”, gli ha chiesto Charlize e Sean l’ha assecondata. Erano sessantacinque armi da fuoco: le ha regalate a Jeff Koons che le ha fuse per trasformarle in una scultura. Battuta a un’asta di beneficenza, se l’è presa Anderson Cooper, l’anchor di Cnn. Prezzo pagato, 1.4 milione di dollari. Poi l’amore con Charlize è sfumato senza troppe cerimonie e quel gesto valoroso è una specie di lascito pubblico, la traccia plateale di quello di cui Sean è capace se la sfida lo richiede. L’episodio serve solo a confondere le impronte lasciate sul terreno e chi pensa di poter investigare la reale natura dell’uomo, si smarrisce puntualmente.

Maledetto? Romantico? Ipocrita? Affascinante? Irrisolto? Calcolatore? “Prima di morire” confessa Sean “mio padre mi disse una cosa che non dimenticherò mai: ognuno ha diritto alla propria verità”.