Alla presentazione degli Oscar 2014, la host Ellen DeGeneres lo ha indicato come the prettiest, il più carino della serata. Giacca bianca, cravattino cremisi, capelli lunghi e barba da Cristo, Jared Leto era davvero the prettiest. E quella notte si è portato a casa la statuetta di miglior attore non protagonista per il ruolo di Rayon, la transgender malata di Aids di Dallas Buyers Club. Un film devastante, importante, bello, speranzoso anche, ma per niente carino.
L’attore e musicista 44enne fa così: condivide sui social il video di una tartarughina a cui dice «Sbrigati» in italiano; in tour con i Thirty Seconds to Mars è una rockstar ispirata che parla di sogni alla sua community; si fa selfie appeso su rocce impervie insieme ai campioni del mondo di climbing e ora presta il volto da ragazzino e il carattere avventuroso agli occhiali da sole Carrera. Tu lo guardi, lo segui, è incontestabile, è proprio carino. E quando arrivi al limite dell’assuefazione, Leto assesta una bordata precisa all’immagine lieve che affiora di lui.
Il 18 agosto esce al cinema Suicide Squad, il cinefumettone dark di David Ayer ispirato ai Dc Comics. Nella squadra di delinquenti scarcerati dalla Task Force X per compiere missioni segrete, il Joker di Jared Leto spicca per l’aspetto disumano e l’umanissima malvagità. Denti di acciaio, occhi come baratri («è il secondo film di seguito con le sopracciglia depilate, avevo paura non ricrescessero», scherza), il corpo ricoperto di tatuaggi e cicatrici, una risata alienante raggiunta in mesi di studi e incontri con detenuti psichiatrici. Ancora una volta l’attore ha intrapreso una trasformazione totale (guardatevi anche Chapter 27, il film uscito in sordina nel 2007, in cui interpreta l’assassino di John Lennon, per cui è ingrassato venti chili e ha trovato il modo di espirare disagio a ogni sillaba pronunciata) e sulla stampa americana si inseguono i racconti dei colleghi che durante le riprese giurano di aver conosciuto solo Joker, mai Jared.
Alle 3.30 di una notte di maggio provo a conoscerlo io, Jared. C’è la possibilità di parlarsi al telefono da Los Angeles, solo pochi minuti, qualche domanda. Ho inciso in testa il suo dialogo a letto con Jennifer Connelly in Requiem for a Dream (un altro ruoletto disfunzionale che ha incarnato con una delicatezza che ferisce), quello in cui sussurra: «Con una come te potrei davvero far funzionare la mia vita». Punto la sveglia.
Suicide Squad non è ancora uscito e girano già voci di uno spin off sul tuo Joker. Perché tutti amano i supercattivi?
I cattivi sono imperfetti. Tutti ci confrontiamo con l’imperfezione, facciamo scelte sbagliate. È uno spasso poter vedere cosa fanno i malvagi nei film, senza le conseguenze di quelle azioni nella vita reale. I cattivi sono colorati, spontanei, hanno una vita eccitante, storielle da raccontare, colgono l’attimo, escogitano piani: è come se attraverso loro partissimo per un viaggio, in cui il rovescio della medaglia non esiste.
Come ti sei preparato alla parte? Ho letto che hai studiato anche pratiche sciamaniche e le teorie di Jodorowsky...
Quello no. È stata una grande avventura, ho fatto molta ricerca, leggendo, scrivendo, immaginandolo. Ho indagato tutte le fonti possibili. Poi a un certo punto ha iniziato a prendere vita e ho seguito le mie intuizioni creative, il mio istinto. È stata una grande sfida, divertente e buffa, strana forte.
Squad è un “trend topic” in questo periodo. Tu hai una tua squadra?
Sono più un tipo solitario (Ora, ho puntato la sveglia in anticipo per essere lucida. Ma quando dice: «Lone wolf», io rido, penso che scherzi. Mi compare un pop-up mentale con il video della tartarughina, i mille post in cui è in sala di registrazione con la band, in giro a sfoggiare capi coraggiosi con gli amici, in sessioni artistiche di gruppo in mezzo al deserto. Io rido, ma Jared non scherza, è convinto e gentile).
Sei molto attivo sui social. Nel modo in cui comunichi online, qual è il ruolo della verità e della fiction? Le due cose possono andare insieme per rendere il messaggio più efficace?
Raccontare storie è sempre stato importante per me, che sia attraverso la musica o i film. Ho sempre amato fare cose, tante, e condividerle con le persone. Mi piacciono la conversazione, i dialoghi, i dibattiti che creo. Trovare soluzioni creative ai problemi, realizzare arte mi appassiona da sempre. Ho la fortuna di poterlo fare, adesso sono elettrizzato dall’uscita di Suicide Squad e dall’idea del nuovo album, due progetti speciali per me.
Nella vita e nella carriera, come hai raggiunto l’indipendenza, e che prezzo hai dovuto pagare?
L’indipendenza ha avuto molto peso per noi come band, Thirty Seconds to Mars, abbiamo lottato duramente per ottenerla. Siamo entrati in guerra con la nostra etichetta, ci abbiamo anche fatto un documentario che si intitola Artifact (Leto lo ha diretto con lo pseudonimo Bartholomew Cubbins, lo stesso con cui ha firmato molti video della band. Il film ha vinto il People’s Choice Award al Toronto Film Festival 2012. Per dire). È una parte molto importante dello spirito e del messaggio del gruppo: essere liberi di vivere le proprie speranze e i propri sogni. L’arte e l’indipendenza devono andare mano nella mano.
Cosa cambieresti oggi nell’industria musicale?
Molte cose si stanno trasformando. Credo che la tecnologia sia il cambiamento più grande. Per così tante persone, ha funzionato come un equalizzatore, gli ha permesso di condividere la loro arte e la loro musica, distribuirla in un modo che non avremmo mai potuto immaginare. La tecnologia ci ha portato anche i social media, che danno voce a tantissima gente, per esprimersi e far conoscere il loro lavoro in tutto il mondo. In un istante. È uno spostamento di potere, che viene tolto dai canali tradizionali e va verso gli individui. Essenzialmente, una gran cosa.
Pensi che la tecnologia, oltre a dare libertà agli individui, possa aiutare le nuove generazioni a ritrovare uno spirito collaborativo?
Sicuramente. Per me è stato uno stimolo, ho imparato molto.
Sei stato coinvolto da Carrera in una Call to Action per talenti da tutto il mondo. Com’è avere così tanti ragazzi che guardano a te come un mentore?
È gentile che lo facciano, non pretendo di essere un mentore. Non sono uno che insegna, mi sento uno studente nella mia vita. Amo imparare. Ma se qualcuno è mosso dal mio esempio è stupendo. Anch’io cerco sempre ispirazione da altri e sono contento di ricambiare il favore.
Tra le persone che lo ispirano ci sono il pensatore New Age Deepak Chopra, Edward Snowden, Marina Abramovic e gli altri protagonisti della serie web Beyond the Horizon, creata da Leto per «discutere del futuro dell’umanità con i visionari più interessanti». È alla seconda stagione, ed è nominata per gli Emmy 2016.
Lo studente Jared impara in fretta ed eccelle in tutte le materie. E continua ad applicarsi senza sosta. Quando non sta recitando, o suonando in tour mondiali, o dirigendo film che cambieranno le sorti del pianeta, investe con profitto in startup tech (è già coinvolto in Uber, Airbnb, Nest e lo chiamano alle conferenze sullo sviluppo IT). O è in chat su vyrt con i fan, quelli con cui dal 12 al 14 agosto condividerà Camp Mars, un’esperienza reale di campeggio rustico con lui e il fratello Shannon, nei monti sopra Malibu. Chissà cos’altro sta progettando. Ma il nostro dialogo notturno è al termine, ho pochi secondi a disposizione. Mi butto.
Cos’è anticonformista?
Essere onesti sulle proprie intenzioni, osare, prendersi rischi enormi, avere un sogno. (Ecco, io non sono stata onesta. Sotto sotto volevo proprio sapere come fa a essere così incontestabilmente carino)