È modella, e attrice non troppo convinta. È frutto, insieme al fratello Hopper, di una delle relazioni più agrodolci e psicanalizzate di Hollywood, quella tra Sean Penn e Robin Wright che, dopo 14 anni di matrimonio, hanno divorziato nel 2010. Ed è stata inserita dalla stampa tra le 100 donne più sexy del pianeta.

Aspetto Dylan Penn nella hall del Four Seasons di Milano, dove è atterrata nei panni di testimonial Fay. Con il fratello Hopper è stata infatti protagonista dell’ultima campagna ambientata in California. Penso a quando mostrerò agli amici le sue foto nude per Treats! sul cellulare e commenterò «l’ho intervistata» con sorrisino allusivo. Eccola: ha gli occhiali scuri e una felpa grigia di una taglia di troppo. Come spesso accade con i personaggi famosi che hai visto solo in foto e in video, dal vivo è più minuta. Prendiamo l’ascensore, entriamo in camera sua. Vestiti ammonticchiati sul divanetto.

Quando mente guarda a destra, si tocca il naso o qualcosa del genere?

No, non cambio di una virgola. Per questo sono campionessa di Mafia.

Ah.

È un gioco di ruolo.

Be’, sì, volendo…

No, dico sul serio. Qui in Italia non è tipo il vostro gioco nazionale?

No, non credo. Insomma, io non lo conosco.

A Parigi lo conoscono.

A Parigi quando c’è da sputtanare l’Italia sono in prima fila.

Davvero?

Sa, la competizione, la vicinanza...

La California confina con il Messico ma a me non è mica antipatico, il Messico. Adoro la cucina messicana.

Tacos, burritos e cose così?

Mi piace tutto ciò che è piccante. Cibo messicano, tailandese, penne all’arrabbiata.

Ma come funziona “Mafia”?

È il mio gioco preferito. È una specie di rito di iniziazione. Per diventare amica di qualcuno devo prima giocarci a Mafia.

Giochiamoci subito.

Non si può. Bisogna essere almeno sette o otto perché sia divertente. Ci si siede attorno a un tavolo. Si immagina di essere abitanti di una cittadina. Si abbassa la testa sul tavolo e si fa casino picchiettandoci sopra le mani (abbassa la testa e picchietta). Un narratore, che non partecipa al gioco, elegge un paio di mafiosi e poi annuncia l’arrivo della notte. I mafiosi si guardano l’un l’altro. Gli altri giocatori, ancora a testa bassa, non sanno chi sono i criminali. I mafiosi scelgono una vittima la cui morte viene appresa dai cittadini all’alba. Inizia un dibattito per decidere chi è il colpevole. Raggiunto il consenso della maggioranza l’accusato viene giustiziato.

E lei non muore mai?

No, anche quando gioco con i miei genitori vengono sempre giustiziati prima loro.

Penso al finale di Mystic River, in cui suo padre pianta un coltello in pancia a Tim Robbins, gli spara un colpo in testa e lo butta nel fiume. Con quella faccia là, con quel ciuffo là. Mica facile giustiziare Sean Penn. «Ma è pericoloso anche per me», continua Dylan.

Cioè?

In passato ho giocato con dei miei fidanzatini e loro si sono spaventati a morte, hanno pianto e sono scappati perché non riuscivano a credere che potessi mentire in quel modo.

Poverini. Erano giovani attori?

No. Non vorrei mai avere una relazione con un attore. Ho molti amici attori, ma in genere sono così vanitosi. Posso perdonarlo a una donna, di essere vanitosa, ma un uomo vanitoso è la cosa peggiore che ti può capitare, in un rapporto romantico. Preferirei un musicista o uno scrittore. (Palpo il mio romanzo, nella tasca della giacca, ma non è ancora il momento).

E lei, l’attrice, la vuole fare?

Il primo film in cui ho recitato è dell’anno scorso ed è un horror, Condemned. Interpreto una ragazza che vive col suo fidanzato in un edificio putrido e fatiscente, tra tossici e feticisti. Il regista, Eli Morgan Gesner, è un mio amico ed era il primo lungometraggio anche per lui. Mi piaceva l’idea di iniziare insieme. Non avevo mai pensato di recitare. Lo fanno già abbastanza bene i miei genitori. Meglio per me stare dietro la telecamera. Dirigere, ma soprattutto scrivere. Sono molto timida.

Non mi sembra così timida...

Se siamo solo in due mi sento a mio agio. È la gente che mi inibisce. Sono introversa, fuori dalla mia famiglia. Non mi piace parlare in pubblico fin dai tempi della scuola.

Sarà mica una mammona?

I miei genitori hanno preferito non espormi ai pericoli fino a una certa età. Crescere in una piccola città della California settentrionale come Ross ha i suoi vantaggi. Potevo andare a scuola a piedi. Mi sono trasferita a Los Angeles dopo le superiori. Adesso mi piace viverci. Se non vedo l’oceano per troppi giorni divento matta.

E ora, più che altro, scrive. Giusto?

Ho fatto anche molti lavori cosiddetti normali: ho consegnato pizze e preparato caffè e cappuccini. Però ho sempre amato scrivere fin dal liceo. Ho scritto racconti e volevo fare la giornalista. Adesso faccio sceneggiature, durante le vacanze di Natale in Utah cerco di rielaborare pezzi di conversazione sentiti al ristorante e storie personali dei miei amici. Ma il mio problema è finirle, portarle a conclusione, risolvere l’intreccio. Finché sono articoli o racconti va bene, ma, voglio dire, qui si parla di cento pagine. Mi esercito molto, sto migliorando tanto.

Sceneggiatura preferita?

Il mio ideale di storia è Io e Annie di Woody Allen. Ha quasi quarant’anni ma descrive la stessa meravigliosa irrazionalità dei rapporti sentimentali che viviamo ancora oggi.

Sceneggiatore preferito? Louis C.K., un grandissimo.

Bussano. Lei apre. È suo padre Sean. Adesso faccio la fine del mafioso in Carlito’s Way, che in pratica lui accoppa a mazzate. Quella faccia, quel ciuffo. Grazie al cielo non è lui ma Hopper, il fratello di Dylan, testimonial di Fay come lei, che sta a Sean Penn più o meno come Dylan sta a Robin Wright. È tenero, la abbraccia, le dice che la aspetta giù al bar.

Suo papà era dolce, quando lei era piccola?

Moltissimo. Mi chiamava “peaches” perché la prima volta che mi ha avvicinato una pesca l’ho divorata.

Oddio, ci provavo, perché non avevo ancora i denti. In pratica la sorbivo. Ancora oggi le adoro, le pesche. Cerco gli appunti per le domande sull’iPhone, vecchio e lento. «Anche io sono troppo pigra per cambiarlo», mi rassicura mostrandomi un iPhone 4s uguale al mio.

E il guardaroba lo cambia spesso?

Da piccola giocavo con i vestiti di mamma, ma posso dire che il mio interesse per moda e abiti sia iniziato con la mia carriera di modella. Tendenzialmente lo shopping mi annoia. Preferisco comprare vestiti per le mie amiche e per mio fratello. Spesso in zona Merlose, a West Hollywood.

Quali stilisti le piacciono?

Di solito scelgo capi comodi, sono una da jeans e maglietta. Ma mi piacciono Karl Lagerfeld, Isabel Marant, Alexander Wang e Tom Ford. La mia vera icona di stile è mia madre.

E come lo definirebbe, il suo stile?

Non è definito. È per come sa valorizzare la forma del suo corpo con i capi che indossa. Anche se abbiamo due fisici completamente diversi, è quello il mio ideale estetico. (Starnutisce, si soffia il naso).

Tutto bene?

Insomma. Sono appena stata in Brasile, mi hanno punto molte zanzare. Credevo di essermi presa la Zika.

Ipocondriaca?

(Mi guarda come se l’avessi offesa orribilmente). Proprio per niente. Dev’essere solo un malanno stagionale.

Qui a Milano adesso ne girano molti. A Los Angeles, dove vive lei, non avrete questo problema.

Scherza? Ce l’abbiamo tutto l’anno. Un giorno c’è il sole e trenta gradi, il giorno dopo fa freddo e piove. Così per dodici mesi. Los Angeles è cronicamente bipolare.

Come si cura?

Mi bevo una birra a Venice Beach al tramonto.

E cosa altro fa di bello, in città?

Amo ballare. Soprattutto hip-hop. Ogni mattina ballo da sola nella mia stanza, per darmi la carica. E quando esco è l’unica cosa che mi interessa. Ma non mi piacciono i club, la loro atmosfera. Preferisco bar con musica, senza pretese.

Che stile suggerisce per Los Angeles?

L.A. è al contempo una megalopoli dove girano un sacco di soldi e una scanzonata città di mare. Direi uno stile altrettanto cangiante, bifronte. Serio se il contesto lo richiede, spiritoso all’occorrenza. Qualcosa di adatto a ragazzi cosmopoliti e metropolitani. Fay lo è. Anche per questo mio fratello e io abbiamo scelto di esserne i testimonial. Ci piace la sua filosofia. Fay ha una doppia anima. (È il momento: estraggo il mio romanzo, glielo allungo).

Si dà il caso che io sia uno scrittore. Le ho appuntato sulla prima pagina il mio numero. Verrò presto a Los Angeles.

Davvero? Fantastico, allora ci sentiamo di sicuro.

Non si tocca il naso, non guarda a destra. Ma so che io domani mattina mi sveglierò morto e lei avrà vinto un’ennesima partita di Mafia.