Mi chiamo Federico, ho 17 anni e due genitori dello stesso sesso. Con loro sono cresciuto, e bene, ma una di loro per lo stato italiano è un’estranea. Sui miei documenti anagrafici io però vorrei leggere il nome di Elena insieme a quello di Giuliana, ma è un diritto che non ho. Sarebbe bello che la legge sulle unioni civili si occupasse anche dei figli. Eppure...

Ma voi a 18 anni avreste mai pensato di farvi adottare da uno dei vostri genitori? Sinceramente, nemmeno io. Almeno fino a qualche tempo fa. Poi il dibattito intorno alla legge sulle unioni civili di questa primavera, che all’inizio prevedeva anche l’adozione dei figli da parte del genitore non biologico (la stepchild adoption), ha cambiato le prospettive in famiglia. E per un attimo ci ha fatto credere che anche in Italia le cose potessero andare come in Canada, Stati Uniti, Spagna, Inghilterra, insomma in quei paesi con cui vogliamo dialogare alla pari in fatto di economia e di politica estera. Mi chiamo Federico, ho 17 anni e mezzo, due fratelli minori gemelli, Sara e Joshua. E due madri. La nostra è una di quelle che definiscono “famiglie arcobaleno”. In pratica significa che circa una ventina di anni fa Giuliana ed Elena si sono innamorate, hanno progettato di mettere su famiglia, ci hanno fortemente desiderato, e per realizzare quel progetto sono andate all’estero per un’inseminazione da donatore. Poi una di loro ci ha portato in grembo e partorito. E insieme ci hanno cresciuto, consolato, sgridato, insomma amato come nessun altro avrebbe potuto fare. Due madri a tutti gli effetti, senza un briciolo di dubbio. Sì, è vero, la racconto come un copione già scritto, ma non so quante volte ho dato queste spiegazioni ai miei compagni: in classe ero diventato l’esperto di educazione sessuale. Mica tutti sapevano come si fanno i figli, tra i miei coetanei, né con la fecondazione assistita, né tantomeno nel solito modo. Devo dire che gli amici prendevano atto della spiegazione e stop, non se ne parlava più. Tutti venivano a casa nostra a mangiare pane e nutella o a fare i compiti al pomeriggio, e se ad accoglierli c’erano Elena e Giuliana, nessuno faceva una piega.

A pensarci ora, credo che questa tranquillità fosse dovuta al fatto che viviamo in una grande città come Milano, ma anche agli incontri che le mie mamme organizzavano prima di ogni anno scolastico con maestre e professori perché tutti si sentissero a proprio agio e io non avessi problemi. In classe, poi, c’erano figli di genitori separati o che lavoravano all’estero, bambini stranieri e di religioni diverse: la mia famiglia era solo una delle tante possibili variabili. Anche piuttosto divertente, direi: da quando ero piccolo non mi sono mai perso neanche una festa della comunità arcobaleno - quella delle famiglie omogenitoriali - che qui è particolarmente numerosa (e rumorosa!). Vendere magliette e gadget al banchetto della raccolta fondi è sempre stata la mia passione. In una delle prime edizioni ricordo persino un trenino dedicato a noi bambini, per non parlare di concerti e spettacoli...

Una comunità affettuosa e molto solidale, la nostra. Grazie a loro ho conosciuto Rebecca, la mia amica storica - anche lei grande venditrice di manifesti e t-shirt. Siamo coetanei (be’, lei ha sei mesi più di me e frequenta la scuola inglese: l’anno prossimo andrà al college, mentre io dovrò finire il liceo). Con lei discuto delle mie passioni - a me piacciono le serie tv tipo Game of Thrones, The Walking Dead, e in fatto di videogames il prequel di Tomb Raider e Assassin Creed. A lei, ovviamente, tutt’altro. Siamo praticamente cresciuti insieme: quando eravamo bambini Rebecca per qualche mese ha vissuto da noi insieme alle sue mamme, mentre ristrutturavano casa loro. Una specie di famiglia super allargata, quella arcobaleno, all’interno della quale le mie madri sono sempre state molto attive: Giuliana, che è più estroversa, va al coordinamento, e quando serve ci mette la faccia, esce allo scoperto. Elena, che è più riservata, si occupa della parte organizzativa, studia i rendering, preferisce stare dietro le quinte. Della nostra presunta diversità non mi ero mai preoccupato, godendo solo degli aspetti positivi, del senso di appartenenza, della parte ludica di quel gioioso carrozzone. Poi, come dicevo, la primavera scorsa la rete e la tv si sono riempiti di discussioni (e insulti) sulle unioni civili tra coppie dello stesso sesso e sulla stepchild adoption. E per la prima volta ho sentito il bisogno di saperne di più.

Schierate a tavola come nelle grandi occasioni, quella sera le mamme mi facevano molta tenerezza mentre si arrampicavano sugli specchi per spiegarci ciò che per noi cinque è scontato e pacifico, ma per la burocrazia no. All’inizio non capivo nemmeno quale fosse il problema. Elena e Giuliana stavano insieme praticamente da sempre, si occupavano di noi a tempo pieno. Erano le nostre madri e noi eravamo i loro figli: cos’altro c’era da aggiungere? Solo col loro aiuto sono riuscito a mettere a fuoco il fatto che per la legge italiana non erano una coppia come le altre, né tantomeno dei genitori a tutti gli effetti. Non a caso a sposarsi erano andate negli Stati Uniti, e nel 2014 erano state tra le prime a far trascrivere il loro matrimonio nella lista delle unioni celebrate all’estero voluta da Pisapia. Mentre sul certificato di nascita continuava a figurare solo il nome della madre biologica. Idem sul passaporto.

Ed Elena, allora? Quella sera mi si è aperto un mondo. Con tutta la delicatezza possibile mi hanno spiegato che secondo la legge lei non avrebbe nemmeno il diritto di assistermi in ospedale o decidere per un intervento chirurgico importante, se mai ce ne fosse bisogno. Non potrebbe viaggiare all’estero da sola con noi, se non con una delega. Non potrebbe lasciarci in eredità la casa dove viviamo, né tutti i suoi averi (perché le sue sorelle e i genitori avrebbero più diritti di noi). E se Giuliana dovesse mancare, in teoria noi ragazzi non avremmo nessuna garanzia di poter continuare a vivere con lei (anche se oggi molti giudici lungimiranti, pensando al bene dei minori, consentono l’adozione dei figli da parte della “madre sociale”). Sì, i peggiori incubi che ogni bambino scaccia nelle notti buie - perdere uno dei genitori ed essere strappato all’altro - mi si erano materializzati davanti agli occhi. Per cancellarli, il “minimo sindacale” da inserire nella legge sulle unioni civili sarebbe stata la stepchild adoption, l’adozione dei figli da parte del genitore non biologico, mi avevano spiegato Elena e Giuliana. In realtà fino all’ultimo loro avevano sperato nel matrimonio egualitario e in un riconoscimento pieno del loro essere genitori (senza il bisogno di verifiche e controlli da parte degli assistenti sociali). Poi è andata come è andata, e la questione figli è stata del tutto stralciata dalla legge del maggio scorso sulle unioni civili, con la promessa da parte di Monica Cirinnà di un secondo round in tempi brevissimi. Noi cinque ci contiamo: quella promessa l’abbiamo presa molto seriamente. «Ma intanto», dice Elena, «continuerò a battermi perché sul vostro certificato di nascita ci sia anche il mio nome».

Non so dire la rabbia che ho provato: io un figliastro da adottare? Uno stepchild? Ma perché mai? Io mi sento un figlio e basta. Anche i miei fratelli, due quindicenni, si sono ribellati all’idea. Poi, sarà che sto crescendo, sarà che tutta quella militanza a vendere magliette con su scritto “È l’amore che crea una famiglia”, e a urlare “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang siamo noiiiiiiii”, non è passata invano, in realtà qualche dubbio ogni tanto mi viene. E non è detto che quando compirò 18 anni non voglia fare una sorpresa alle mie madri, chiedendo io stesso di essere adottato da Elena - senza alcun bisogno di assistenti sociali, a quel punto. A meno che nel frattempo questo Stato non voglia farmi un regalo per la maggiore età, approvando in tempi rapidi una legge decente su noi “figli arcobaleno”, che ci renda finalmente uguali a tutti gli altri figli, come recita la Costituzione. Utopia? Sono un ottimista: è il mio pensiero felice per il 2017 (anche perché di trenini e magliette potrei cominciare a stufarmi, prima o poi).