In foto sembra avere una bellezza altera, francese. Poi lo incontri e quella faccia si rivela solare, con gli occhi che dardeggiano mentre parla del suo lavoro. D’altronde Nicolas Ghesquière (pronunciarlo correttamente, jesquière, fa guadagnare uno di quegli sguardi) ha deciso di diventare stilista all’età di 12 anni (per sfuggire alla noia della campagna francese dove è cresciuto) e a 25 sedeva su un trono scomodo, quello della decaduta maison Balenciaga.

Per lui che è nato nel 1971, l’anno prima della scomparsa del grande Cristóbal, è stata una scommessa vinta. Osannato dalle giornaliste di moda(Suzy Menkes l’ha consacrato nel 2001 definendolo “totally original”), ha vinto premi come miglior designer avantgarde e ha riportato il marchio agli antichi fasti, creando una moda “cutting edge”, avanti, fedele allo stile del couturier spagnolo, ma proiettato nel futuro. La costruzione di forme e volumi, la sua celebre “silhouette” (pantaloni smilzi e blouson) è un marchio distintivo e fa impazzire le ragazze- da-copiare (da Kate Moss a Chloë Sevigny per intendersi), ha avvicinato alla moda donne dallo stile genetico come Charlotte Gainsbourg, la musa di questi giorni che Nicolas ha voluto come testimonial del suo primo profumo, Balenciaga Paris, anche se lei non ne ha mai portato uno. L’incontro è all’Hotel de Crillon di Parigi.

Il suo “amore” per Charlotte non conosce crisi? È una relazione che dura da tempo, sostenuta dall'amicizia. È un rapporto personale che coinvolge anche la sfera dell’ispirazione. Amo le sue scelte di film e musica. Mi è familiare, appartiene alla mia generazione. Siamo amici da dieci anni, ma mi sembra di conoscerla da sempre, anche perché è nella storia francese. È speciale, è davvero una bellissima persona e penso che lei incarni perfettamente Balenciaga. Io sono un tipo molto fedele con le persone che mi sono vicine e lo è anche lei.

Balenciaga era considerata una griffe molto snob. Cristobal esaminava le sue clienti prima di accettarle. Oggi cosa succede? Siamo molto più aperti (ride)! La donna Balenciaga è quella che riconosce e ama il mio lavoro. Che si ritrova nelle mie proposte perché completano la sua personalità.

Cos’è questo mitico stile “parisienne”? Non ne ho idea, non esiste più. Probabilmente è la nostalgia di alcune icone come Catherine Deneuve, di quella particolare arroganza ed eleganza. Proprio lei ha detto che la parisienne è una donna ben vestita, che fa un errore di proposito.

Ha lavorato molto per arrivare al successo, ma alla fine è stata la sua “Biker Bag” a renderla una star globale. Come fa una borsa a diventare un cult? È stato un successo spontaneo. Io l’ho soltanto disegnata, ma non avevo una strategia. Alcune ragazze considerate cool hanno iniziato a indossarla ed è diventata un fenomeno. L’altra ragione è che siamo arrivati in un periodo in cui questa borsa era diversa da tutte le altre. Non c’era un logo, non urlava “sono griffata”. La dovevi riconoscere. Così è diventata cult in un mercato saturo. Gli analisti dicevano: non può avere successo. Ho adorato andare controcorrente. Forse chi l’ha comprata non si è sentita spinta a farlo, è venuta da sola a cercarla. È come una tribù: la borsa è diventata un segno di appartenenza a quel gruppo.

La Gainsbourg dice che non le dispiacerebbe se le dedicasse una “Charlotte”, così come Hermès ha creato la Birkin per sua madre. Davvero? È una grande idea, prendo nota.

Le sue scarpe sembrano sculture e le boutique sono disegnate da Dominique Gonzalez Foerster. La moda si avvicina sempre più all’arte? Quando richiedo certe lavorazioni impossibili, tutti scherzano sul fatto che certe scarpe finiranno in un museo! E nel secondo caso Dominique è una grande amica. Amo il suo lavoro da tempo. Sono molto cauto quando si parla del rapporto tra arte e moda, perché non si capisce chi stia usando l’altra e mi sembra che dietro ad alcune partnership artistiche ci siano più che altro ragioni economiche. Dominique è coinvolta nel mondo Balenciaga in qualità di architetto: voleva integrare il suo lavoro nel mio design più che piazzare un pezzo artistico in una delle nostre boutique.

Al suo boss François Pinault che cosa chiederebbe in prestito dal suo museo di Punta Dogana a Venezia? Ci sono alcuni pezzi a cui terrei molto: fra tutti, la serie di autoritratti a colori firmata da Cindy Sherman.

Perché si continuano a citare gli anni 80? Cos’aveva di speciale quella decade? Per me lo è perché sono figlio di quegli anni, essendo nato nel 1971 c’è un’influenza. Probabilmente è lo scorrere del tempo e il cambio di generazione che porta a valorizzare il periodo in cui uno è cresciuto. Io ero un grande fan di Ettore Sottsass e del design italiano di quegli anni.

La prossima collezione estiva,invece, da chi è stata ispirata? Dall’artista cileno Claudio Bravo. È un pittore che ritrae un mix di orientalismo e sport. Ha fatto dei quadri molto realistici, credo in Marocco, e ha uno stile molto puro.

Qualcuno pensa che fare parte di un grande gruppo a volte freni la creatività. Concorda? Se hai delle idee forti e una visione ti lasciano lavorare. Io non credo ci sia più una battaglia tra i manager e gli stilisti. Oggi i creativi devono capire il business e i manager essere coinvolti in quello che viene creato.Direi anzi che stiamo assistendo a una grande evoluzione.

Perché a volte la gente normale pensa che il mondo della moda sia un po’surreale? Perché lo è. Dovrebbe parlare ed emozionare la gente,ma non essere immediatamente reale. Partire da un’idea nuova che si concretizza quando arriva nei negozi. È il grande gioco della moda che io credo, invece, si stia avvicinando alla realtà. Ci sono moltissime proposte e la gente è sempre più coinvolta. Ma chi disegna non deve farsi influenzare dalla strada. Quando pensi alla creazione devi essere libero il più possibile da ogni vincolo.

A volte, però, si vedono abiti che non si capisce a che donne stiano parlando? Le faccio un esempio: tempo fa ho fatto una giacca piena di borchie appuntite nella Robot Collection. Era molto complessa, in bianco e nero, quasi da motociclista. Oggi è un bestseller continuativo della collezione Capsule. Per noi è diventata un pezzo iconico e la forma non è cambiata, è esattamente quella che ho presentato in passerella. Le più audaci, che se la potevano permettere, l’hanno comprata subito. Poi si è adattata alla vita reale e questo è il ruolo della moda. Proponi qualcosa che può non avere seguito o, al contrario, la sua evoluzione nel tempo la trasformerà in un nuovo classico, che la gente riconoscerà come assolutamente normale.

Come risponde a chi sostiene che i prezzi delle griffe sono troppo alti, anche rispetto alla qualità? Oggi tutto è lusso se ascolti certi marchi, bisogna stare attenti. Ma la gente non è stupida, sa che cosa ha valore. La grande differenza è data dalla qualità nella produzione e questa, sono d’accordo con lei, è una domanda da farsi. Il successo è una combinazione di creazione e sperimentazione, di cose ben fatte. Oggi va “l’alto e basso”: si unisce quello che viene da un mercato per pochi euro con qualcosa di molto costoso. C’è molta confusione ecco perché bisogna essere radicali nelle proprie proposte.

Disegnerebbe una collezione per un marchio mass market? Al momento no. Credo sia una grande esperienza e vedo buone collaborazioni, ma non è la mia storia.

Il fast fashion sta crescendo, l’haute couture soffre. Qual è il futuro della moda? Un mix di tecnologia e “fatto amano”. Noi abbiamo la tradizione artigianale nel dna, anche se non facciamo più l’alta moda. C’è un atelier a Parigi che sviluppai prototipi e abbiamo fornitori che hanno un tocco artigianale, ma io sono anche molto interessato alla tecnologia nella produzione, e mi piace il risultato.

Una rivista tedesca ha annunciato che non utilizzerà più modelle perché vuole proiettare un’immagine reale contro la dittatura della magrezza. Cosa ne pensa? Credo sia positivo. Io faccio la collezione in una certa taglia e tutti noi designer usiamo le stesse modelle. Il peso è molto importante e,certo, esiste un problema. Però mi disturba che la discussione sull’età non entri mai nel dibattito. A Parigi le quindicenni non possono lavorare. Noi non usiamo ragazze molto giovani, ma quelle magre, sì. Indossano meglio i vestiti, la cui fattura richiede un lavoro enorme. Perché non te li inventi all’ultimo minuto e io li realizzo assicurandomi che la silhouette sia veramente quella che desidero. Ma una forma perfetta e le proporzioni giuste in una taglia piccola, lo sono anche in una più grande.

A volte però c’è il sospetto che quella silhouette non si adatti proprio a tutte? Il numero di abiti che vendiamo sono la prova che non pensiamo soltanto alle super skinny! Sono i vestiti che fanno la silhouette, non il peso. Io non ho in mente una donna ideale, ma corpi e personalità diverse. Vedo un mondo globale, internazionale e multirazziale.

Le nuove icone di stile che corrispondono al suo pensiero? Da Rania di Giordania a Letizia di Spagna che ha carisma. E poi c’è Hillary Clinton che ha trasformato se stessa ed è molto meno conservatrice di un tempo. L’esempio di Michelle Obama è perfetto: un mix di moda alta e popolare, mostra sempre grande carattere e personalità. E poi Carlà che è prima di tutto un’intellettuale, oltre che ex modella.

Sinceramente mi aspettavo un Nicolas più timido. A volte si ha l’impressione che le persone molto creative abbiano problemi a esprimersi con le parole. È anche lei cosi? Non do tante interviste perché lavoro davvero molto! Ma quando ho qualcosa da dire, sono felice di farlo. Sì, è vero, creare le collezioni è il modo di esprimere la mia visione.

Ha praticato equitazione, scherma e nuoto. Lo sport ha influenzato la sua moda e poi cos’ha imparato? Che l’equilibrio tra mente e corpo è molto importante e lo sport è un validissimo alleato perché ti riporta ai valori più veri. E mi ha insegnato la competizione. Non ho mai gareggiato ad alto livello, ma ho colto lo spirito e la disciplina.

Qualcuno dice che lei è il “darling” del mondo della moda. Come ci si sente? Spero continui a essere così, sono fortunato.Posso dire che me l’aspettavo, che quando ero giovane desideravo essere notato, non osavo chiedere il successo. C’erano Jean Paul Gaultier, Azzedine Alaïa, Gianni Versace e Issey Miyake, che mi hanno influenzato. E poi Helmut Lang. Io pensavo che se solo fossi riuscito a fare parlare di me sarei stato felice. Oggi sono amato dagli addetti ai lavori e dalla gente, ma probabilmente quello che mi rende ancor più orgoglioso è pensare che quando sarò molto vecchio ripenserò al fatto che il nome Balenciaga, nella storia della moda e poi scomparso, è ritornato in auge grazie a me.