PROLOGO

caro antonio, grazie per la tua lettera e scusami tanto per il ritardo con cui ti rispondo. dunque, mi sembra confermato il nostro appuntamento. solo, volevo anticiparti, che mi è più semplice (o comunque meno problematico) parlare di certe cose che mi trovo a fare (il teatro o il cinema oppure, ogni tanto, la scrittura) piuttosto che di come sono o di cosa posso pensare su argomenti altri. spero che riusciremo comunque a trovare qualcosa che possa interessare te e i tuoi lettori, qualcosa che riesca ad occupare due ore della tua attenzione. ti ringrazio ancora. a presto luigi

(Il destinatario della mail, che nota la perfetta padronanza dell’italiano e il vezzo di non mettere le maiuscole dopo i punti fermi - un’esondazione di understatement - ha un brivido. Quel brivido che gli fa intuire come Luigi Lo Cascio possieda un’arma ingrado di mettere in crisi anche Oprah Winfrey: la spietata gentilezza di chi sa usare le parole per raccontare il meno possibile di se stesso. In parole povere: sarà dura).

ROMA, CAFFETTERIA DEL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI. «Sbagli a dire che non mi fido dei giornalisti. È che se io ti dico una cosa qui, tra noi, a questo tavolino, poi le mie parole - le parole sono fondamentali, spesso ci si dimentica quanto - non possono avere la valenza di un pensiero tanto importante da essere esteso a tutti i lettori.

Ti faccio una confidenza: capita che mi invitino a talk show di quelli anche belli, con ospiti prestigiosi, pure più famosi di me, premi Nobel e divi di Hollywood. Io, per ora, rispondo: no, grazie. Poi magari dicono che sono vanitoso, ma la verità è un’altra: sai quale? Che se tu mi fai delle domande presupponi che io possa darti delle risposte. E la responsabilità di ciò che verrà pubblicato è tua e del tuo direttore. E quando succede, visto il mio amore per la scrittura, che un giornale mi offra di firmare un articolo, allora è peggio. A chi legge sembrerebbe che mi metta nella posizione di chi “ha qualcosa da sostenere”. Invece l’attore deve scomparire, una volta uscito dai film o dai drammi dove recita. Anzi. Dev’essere invisibile anche quando lavora, senza far mai trapelare elementi di sé per non intralciare l’identificazione dello spettatore con il personaggio».

«Ti faccio un esempio. Quando ne Il dolce e l’amaro ho interpretato Saro, un delinquente siciliano che diventa un uomo d’onore, un mafioso, uno mi ferma per strada e mi rimprovera: “Ma come, tu che eri Peppino Impastato ne I cento passi e sei diventato l’emblema della lotta alla mafia ti metti a recitare in un film del genere?”. Era un complimento, ma forse no. Per quello spettatore io ero Impastato e non avrei dovuto passare a personaggi che sono dall’altra parte, per dire così. Questo non riesco a capirlo. E allora io mi diverto a scegliere generi differenti: il dramma intimo con Luce dei miei occhi, il thriller con Occhi di cristallo, la lettura personale di un dramma collettivo come il terrorismo con Buongiorno, notte, il film storico con Noi credevamo, che uscirà ad aprile o a maggio con la regia di Mario Martone: sono un cospiratore ai tempi del Risorgimento ed è tratto da un bellissimo romanzo di Anna Banti».

«Insomma: un autore, uno scrittore, un regista, produce un oggetto che esibisce: per chi fa il mio mestiere, invece, esprimere un’opinione è già fare pettegolezzo. Un pettegolezzo che non merita la permanenza della registrazione televisiva o dell’inchiostro sulla carta. La parola scritta mi emoziona di più, un testo è comunque definitivo, lapidario, immutabile. Ora sto recitando ne La caccia, una mia riscrittura da Le Baccanti di Euripide, con cui partirà la stagione a Milano di un nuovo teatro, l’Elfo Puccini, un grande stabile degli anni Trenta che torna a rivivere dopo molti anni. La metafora della caccia allude al meccanismo tra persecutore e preda, ma anche al desiderio di accerchiare, stanare, catturare un’entità, Dioniso, che è inafferrabile. Tant’è vero che a volerlo acchiappare c’è anche uno studioso del mondo greco,che vuole fare luce sul mistero del mito. Con la conseguenza di ridurlo a merce, a feticcio. Infatti, invece dei cori mi sono inventato i “coroselli”: al posto di una comunità che esprime un sentire comune, siamo costretti ad ascoltare una serie di inviti pubblicitari ai godimenti più prevedibili e volgari (per chi volesse leggere i suoi testi: La caccia nella tana, Viennepierre, ndr)».

«Scrivere per me è reagire a qualcosa che mi turba: un altro mio monologo, Nella tana, è ispirato al racconto La tana di Kafka. Quando l’ho letto mi ha fatto stare male. Il linguaggio può trasformarsi in contagio, come dice Gesualdo Bufalino in Diceria dell’untore, che ho portato a teatro con la regia di Vincenzo Pirrotta. Vorrei far passare agli altri le stesse angosce che quel testo ha fatto passare a me. Senza offrire soluzioni. In ciò che scrivo mi piace riferire. No, cos’hai capito? Nel senso di ferire due volte. Mi chiedi chi ferisce di più me? Mah, i miei critici più spietati sono mia madre, i miei fratelli, le persone che mi conoscono da vicino. Se fai una cosa diversa da come sei dicono: “Ma quant’eri finto!”. Se reciti in una parte che possiede dei tratti di somiglianza con te sbottano: “Ma non hai fatto niente...”».

INTERVALLO

(Siccome la natura impone le sue regole anche alle anime belle - e Lo Cascio di sicuro lo è -il giornalista e l‘attore fanno un break: il primo esce a fumare,il secondo si volatilizza in toilette. Fuori dal Palazzo delle Esposizioni, si svolge il seguente sketch)

Ammiratrice di L.L.C: «Brutto essere fumatori eh? Ero al tavolino accanto. Beati voi, che vi pagano per parlare con persone così affascinanti...».

Giornalista: «Sì, ed è anche una brava persona».

Ammiratrice: «Ma lui, com’è davvero? Perché non si vede mai sui giornali, non va mai in tivvù... L’avrà spremuto, eh?».

Giornalista: «....».

Ammiratrice: «Che le ha detto? Su, un’anteprimina... Poi il giornale lo prendo, eh? Che, si preoccupa che se me lo dice adesso, poi non lo compro più?».

Giornalista: «Mah, stiamo parlando dei suoi nuovi lavori...».

Ammiratrice: «Sì, ma di se stesso che dice? A me piace un sacco...».

Giornalista: «...».

Ammiratrice: «Anche fisicamente, intendo. Non è altissimo, ma ha una faccia, una faccia... Ma è sposato, sta con qualcuna?».

Giornalista: «Attenta, mentre parlava si è dimenticata di fumare e le è caduta la cenere sulla gonna».

Ammiratrice: «Parlare di lui mi emoziona. E allora? Dica dica...» (un po’ spazientita).

Giornalista: «È tornato. Mi scusi, devo continuare».

Ammiratrice: «Gli dica che ne I cento passi era pazzesco!».

Luigi Lo Cascio ha ragione (pensiero del giornalista).

SECONDO TEMPO

«La famiglia, dicevamo. Per me è una forza, anche se mi rendo conto che è come l’esistenza, è un destino: magari due fratelli non hanno minimamente la stessa percezione della vita. Mio padre purtroppo non c’è più, ma mia madre, il fatto di essere cinque figli, e l’avere avuto un’infanzia felice l’ha resa nel tempo una piattaforma solida, sicura, protettiva come una piccola città. Eravamo sempre in una “situazione di continuo confronto». Che nella Palermo dei primi anni Ottanta voleva dire giocare con gli altri ragazzini del quartiere. Giocare mi ha insegnato molto: sono sempre stato minuto, magro, non alto e mi ero alleato con un mio amico contro due fratelli più grandi, più grossi e più bravi di noi. Ma noi continuavamo. Giocavamo sapendo di perdere: forse, ora che ci penso, giocavamo proprio per allenarci a perdere. È stata una grande lezione: mi sono sempre piaciute le sfide, ero discretamente bravo nel salto triplo e sono arrivato a essere tra i primi quindici in Italia».

«E poi c’erano gli zii... Per esempio l’attore, Luigi Maria Burruano, che mi ha segnalato a Marco Tullio Giordana per il ruolo di Peppino Impastato ne I cento passi. E lo psichiatra - anch’io avrei voluto seguire la sua strada - che arrivava da noi picciriddi con libri come La signorina Else di Arthur Schnitzler, L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, e ce li raccontava ridendo, ma ridendo... Sì, rideva anche di quelli più malinconici: sapeva, come diceva Pirandello, che ogni storia può essere raccontata da due punti di vista, uno comico e l’altro drammatico. Io cerco di mantenere sempre un registro che comprenda sia l’umorismo sia la tristezza, anche perché non è facile cercare di staccare l’una dall’altra nella quotidianità: una sensazione che ritrovo anche recitando a teatro. Ho iniziato tardi, a studiare recitazione seriamente: avevo 22 anni. Fino ad allora ero in gruppo di cabaret che si chiamava Le ascelle, non avevo nessuna esperienza professionale e da studente di medicina ho provato a frequentare l’accademia. Ho fatto una scommessa: se mi avessero accettato al primo colpo, bene. Altrimenti sarei diventato psichiatra».

«Mi hanno preso al primo colpo. Con me c’erano Alessio Boni, Fabrizio Gifuni: molti colleghi che ho ritrovato ne La meglio gioventù. A proposito: rimango perplesso quando mi chiedono se preferisco recitare per il cinema o per il teatro. Sono due cose differenti. Vedi, il cinema è più impudico, non ti permette di scomparire dietro una maschera, non hai alle spalle mesi di prove che ti mettono su un percorso sicuro. Segui lo spettacolo e magari mentre stai recitando in una scena tragicissima, strizzi l’occhio al collega che fa il moribondo e sottovoce gli chiedi: “Dove andiamo a cena stasera?”. E lo fai lì in scena, proprio quando il dramma è al suo culmine. Però non faccio bene a dirtelo, è una mancanza di rispetto allo spettatore che in quel momento magari sta piangendo perché la scena lo coinvolge e lui si identifica talmente tanto che se adesso viene a sapere da quello che scrivi che tra attori di teatro si chiacchiera approfittando dei mezzi toni di voce, si offende...».

«Non credo alla mitologia che circonda noi attori, ma ti assicuro che per continuare ad avere la sensazione che riusciremo ancora a suggestionarvi, a sedurvi, voi dovreste velarci e non svelarci, con domande tipo: “Cosa pensi della vita?”, “il tuo giudizio sulla società?” o “per chi voti?”. Sono sporcature: ogni persona, nella vita quotidiana, non coincide mai con l’opera che fa. Ne è sempre al di sotto».

(Mentre si congedano, l’attore inavvertitamente mostra al giornalista una borsa di tela del Festival Off di Venezia). Guardi la mia borsa? Eri a Venezia anche tu?» . «Ah, hanno presentato un film dove ha lavorato mia moglie». Ma allora sei sposato. «Sì, lei si chiama Desideria. Desideria Rayner».

EPILOGO

caro antonio, certo, puoi pubblicare la lettera se ti sembra significativa. l'ho riletta e toglierei la virgola che mi scappò non vista dopo “volevo anticiparti”. A me ha fatto molto piacere conoscerti. buon lavoro. a presto luigi Ok. Le parole sono fondamentali. Davvero fondamentali (pensiero del giornalista).