Il velo che ha rappresentato il suo punto di svolta è diventato una sciarpa che protegge la gola. Ginevra è ancora gelida. Nessuna traccia di primavera. Mentre si toglie la giacca, Golshifteh Farahani evidenzia una dote rara in Occidente: la passione contenuta nella discrezione.

Questa ragazza iraniana di 27 anni che non torna nel suo paese dal 2008, ha come sola responsabilità l’aver deciso di non indossare il velo, che nel suo paese è legge, su un red carpet. Con l’aggravante che accanto a lei c’erano Leonardo DiCaprio e Ridley Scott. E dunque, davanti a loro, i fotografi di tutto il mondo. Quelle foto a testa scoperta (l’occasione era il lancio del film di Scott Nessuna verità, di cui lei è protagonista), e con un vestito senza maniche, le hanno cambiato la vita. Amarezza, voglia di lottare, un sorriso che disarma nella sua dolcezza sono movimenti contenuti e sedati nel suo corpo piccolo. In un volto che è stato prima l’emblema dell’Iran e dei suoi contrasti, poi quello di un’attrice che si avvia verso una carriera internazionale costruita piano, con oculatezza.

«Ho lasciato l’Iran perché dovevo» esordisce Golshifteh, a Ginevra per impegni di lavoro. «Il senso di essere stata messa all’indice senza alcuna ragione mi ha portato ad andare via. Da allora ho deciso di parlare non ad alta voce, ma sommessamente. Credo che noi artisti dobbiamo parlare per andare in profondità. Vivo a Parigi adesso, perché mio marito è mezzo francese. Dopo quello che è successo, avevo bisogno di poter definire la mia città un posto che amo. È stata Parigi a scegliermi. Certo che amo l’Iran. Andarmene è stato accettare un prezzo molto alto. Ma sapevo che non c’era alternativa. È questa la mia strada. Durante quei giorni - e mi sbagliavo - mi sentivo come un’ambasciatrice del mio paese in un certo senso. Era ridicola la sola idea di pensare di andare con il velo sul red carpet di New York, considerato anche il fatto che nel film non lo porto. Se dopo quello che è successo avessi rimesso il velo in tutti i festival in cui mi hanno invitata, gli avrei fatto un favore, avrei lavorato per Ahmadinejad!».

Le cose che le sono accadute, da manuale, sono balzate alla ribalta dopo la sanguinosa rivolta popolare iraniana dello scorso anno. In seguito a infiniti provini, Golshifteh Farahani viene scelta da Ridley Scott per interpretare la protagonista di Nessuna verità, un film con Leonardo DiCaprio e Russell Crowe incentrato sulla lotta eterna tra Stati Uniti e terroristi islamici. Nel film Golshifteh interpreta Aisha, un’infermiera giordana di padre iraniano, della quale DiCaprio si innamora.

Se già l’arrivo su un set internazionale, in un paese che aveva sancito il rispetto dell’embargo contro l’Iran, è stato delirante per problemi di visto, quello che è successo dopo ha dell’assurdo. Golshifteh ne parla mentre incrocia le gambe sul divano. Il fumo di un caffè caldo le investe gli occhi fondi, si inceppa un attimo nelle ciglia arcuate.

«Fino a quel momento la mia posizione era buona. Mi sono sposata a 20 anni e al governo piace se fai l’attrice e dimostri una moralità. Ma già prima che succedesse tutto, avevo scelto una mia forma di silenzio: non partecipare mai a qualcosa di pubblico ma parlare attraverso i miei film, spesso popolari e apprezzati anche dai critici. Prima di Ahmadinejad sono stata invitata più volte anche dal presidente Khatami. Non sono mai andata. Mai da nessun ayatollah o mullah. Anche se amavo il presidente Khatami e l’ho votato, per me lui era comunque un mullah e non ho voglia di dividere la tavola con un mullah. Non voglio che loro possano usare per scopi personali il fatto che sono famosa. Credevo a torto che proprio a causa della mia celebrità avrebbero accettato un gesto che significa libertà per le donne: mi sbagliavo. Tornata nel mio paese è stato l’inferno. Quando mi hanno tolto il passaporto e impedito di partire per fare il provino per The Prince of Persia (il ruolo è poi andato a Gemma Arterton, ndr.), se non ci fosse stata la mia famiglia e la vicinanza di Leo DiCaprio sarebbe stato impossibile risalire a galla. È anche grazie ad amici come lui che sono riuscita a mettere insieme una cifra inverosimile per riavere i miei documenti: un milione e mezzo di dollari».

Golshifteh finalmente sorride. Poi ride all’evidenza di una situazione che non si è mai basata su un’accusa definita, ma sull’illazione di nuocere alla Repubblica Islamica. La voce le si stempera appena tocca il tema dell’amicizia con DiCaprio.

«È un rapporto che passa anche attraverso delle cose inafferrabili, per esempio mio marito somiglia al padre di Leo. Tra noi c’è un’amicizia intensa e semplice. Credo che per persone come Leo sia difficile trovare degli amici. Quando viene a Parigi ci vediamo, passa a mangiare da noi. Direi che è prima di tutto una persona vera, un uomo, e poi anche un attore. Ha una gentilezza tenerissima, anche nella maniera di aiutare gli altri. Quando mi hanno tolto il passaporto e l’ho chiamato, era calmo: sono certa che se fosse accaduto qualcosa di grave, si sarebbe impegnato in prima persona».

Golshifteh fa sprofondare il discorso nei ricordi peggiori: «Durante i sette mesi degli interrogatori, mi mettevo due paia di mutande e poi andavo in tribunale. Non sapevo se mi sarebbe andata bene o se mi avrebbero stuprata: nel qual caso tentavo di rendere le cose più difficili. Alla fine, non mi è successo nulla di assolutamente comparabile con quello che fanno oggi agli studenti: nessuno mi ha mai toccata con un dito. Ma chi non è stato nel mio paese non sa come può andare. Ironia vuole che dopo molti film in cui interpretavo la povertà, o la disperazione di una madre che non riesce a decidere se partorire un figlio malformato dai gas respirati durante la guerra (M for Mother, ndr.), mi chiamavano Figlia della Nazione. Non ero più solo un’attrice».

L’Islam di palazzo l’aveva pietrificata in simbolo. Come del resto accade a tutte le donne: «Siamo costrette a portare il velo già a 6 anni, ma la mia generazione non crede che la religione passi da lì. Ahmadinejad ha bisogno di mostrare che l’Iran è un paese Islamico: vuole mantenere uno status quo che sta uccidendo il paese. Per questo le frontiere sono chiuse. C’è voluto il sangue dello scorso giugno perché il mondo potesse sapere. In altri paesi di religione islamica lo stato è laico».

«Quando c'era lo Shah abbiamo fatto dell'Islam un vessillo politico, allora era necessario, ma adesso? La religione serve a coprire un’ansia di democrazia che è reale. Per esempio nessuno sa, perché non si dice mai, che a differenza degli altri paesi islamici, noi ci divertiamo come pazzi a raccontare decine di barzellette sulla religione».

E qui la risata diventa contagiosa. Corrosiva. Golshifteh alza appena le spalle, come a dire, che fare? La sua storia, quella della figlia di un regista che voleva fare la pianista ed è diventata il simbolo di una presa di coscienza, è ampiamente contenuta nei suoi successi attuali. Il regista Roland Joffè l’ha voluta come protagonista di un film che si annuncia affilato come il suo celebre Mission. Si intitola There Be Dragons, parla della Spagna dopo l’orrore della Guerra civile.

«In Iran, quando sui documenti scrivi “attrice”, non ti considerano. Mettono su quella parola una riga nera: ti dicono che l’arte non esiste. Vengo da una famiglia di artisti che ha pagato. Mia sorella è famosa, mio padre anche, ma gli hanno tolto la serie tv che stava dirigendo per pretestuosi problemi di budget. Ho visto mia madre di recente, solo 5 giorni a Dubai. Questa è la mia vita. Nel film di Joffè sono un professore di fisica quantistica di origini marocchine che vive a Londra. Non dico di più, aspettiamo che esca. Così come avevo fatto con Ridley, non ho voluto vedere nessuno dei capolavori di Roland. Se non conosco i loro film prima di lavorarci insieme, non li giudico. Di un regista mi interessa l’uomo. Tra gli italiani mi piace Rossellini. E del vostro paese amo molti luoghi. Soprattutto un’isola: Ponza».

Come darle torto. Anche Golshifteh è a suo modo un’isola. Ferma e inaffondabile nel silenzio che accetta. «Durante gli interrogatori, tornavo a casa e passavo ore a lavarmi. Lavarmi la faccia. Le mani, ogni cosa. Quei luoghi ti vogliono rendere sporca per sempre. Metterti il piombo ai piedi. Ma io sono una zingara. O forse ho solo un’unghia sotto al sedere».