Se la proclamerete “la nuova musa di David Lynch”, potreste generare un equivoco. Perché Ariana Delawari non ha l’inafferrabilità algida e misteriosa di Isabella Rossellini o di Laura Dern.

E invece immaginatevela da ragazzina, mentre mastica un chewingum. Nata in America nell’anno in cui i sovietici hanno invaso l’Afghanistan, ha assorbito la terra d’origine per osmosi, lasciandosela penetrare nell’anima attraverso le chiacchierate in lingua dari con la nonna paterna, mentre ballava per casa con coda cotonata e neo finto al ritmo di Like a Virgin. E immaginatela trascorrere serate ad ascoltare, a cena, strategie politiche per aiutare un popolo privato della libertà, mentre oltre la finestra si agitava l’estate senza fine della California. Immaginate lo stupore di occhi avidi che si posano per la prima volta su paesaggi fino a quel momento astratti e cominciano a distinguerne colori e sfumature. Innamorandosi, come nel più classico dei colpi di fulmine.

Era il 2002 e Ariana, aspirante regista col pallino della musica, aveva dato un senso profondo ai racconti di una vita. Un po’ material girl nata nella Terra Promessa, un po’ neo hippie con lo spirito da avventurosa guerriera, lei è la prova vivente della possibile coesistenza pacifica tra culture diverse. La sua missione è raccontare al mondo, attraverso l’arte, la bellezza, di quell’Afghanistan soffocato e in lotta per ritrovare se stesso.

Il primo grande passo in questa direzione è il disco Lion of Panjshir (si può ascoltare su arianadelawari.com) che Lynch ha pubblicato per la sua etichetta discografica, un misto di radici orientali, suoni occidentali (un po’ Cat Power, un po’ PJ Harvey) e testi candidamente caustici. Un omaggio a un altro grande combattente, Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panjshir”, leader della rivoluzione afgana assassinato da Al Qaeda nel 2001. Lui considerava «un dovere difendere l’umanità dalla morsa dell’intolleranza, della violenza e del fanatismo» e Ariana l’hapreso molto sul serio.

Com’è stato registrare l’album a casa dei suoi genitori, a Kabul? Non proprio facile. Siamo riusciti ad attrezzare uno studio, ma non avevamo un tecnico del suono. C’era una persona molto gentile che ci dava una mano quando poteva ma parlava esclusivamente dari, comunicare con lui è stata un’impresa. In Afghanistan l’elettricità è un privilegio di pochi. A casa nostra saltava in continuazione, quindi abbiamo usato un generatore esterno, che faceva un rumore infernale. Un bel giorno anche quello ha smesso di funzionare. È stato tutto terrificante, anche perché avevamo tempi stretti e paura per gli ustad, i musicisti tradizionali ottantenni che hanno suonato con me. Nei fine settimana, quando il traffico aumenta, c’era un rumore pazzesco,quindi ho dovuto isolare la casa con dei tappeti afgani inchiodati alle pareti. A questo si aggiungeva la situazione all’esterno. La casa dei miei ha delle mura di cinta molto alte con filo spinato, ma all’entrata c’erano due guardie 24 ore su 24. Non potevi neanche andare a fare una passeggiata senza di loro.

Si riesce a vivere, oggi, in Afghanistan? Dopo la fine del regime talebano si respirava un’aria di grande speranza, ma la paura fa ancora parte del quotidiano. C’è sfiducia. I talebani resistono. La prima volta che ci sono andata non conoscevo la situazione delle zone interne. Andare in posti del genere è uno shock culturale. Ho avuto modo di visitare campi profughi, orfanotrofi, campagne, di trascorrere del tempo tra le popolazioni nomadi. La gente possiede poco, i bambini non vanno a scuola. Un mese fa ero al telefono con mio padre e ho sentito uno scoppio. A circa mezzo isolato da lui era esplosa una bomba. Un’altra, poco tempo prima, era caduta non lontano da casa mandando in frantumi i vetri delle finestre. Anche per questo ho deciso di registrare l’album a Kabul. Ho sempre desiderato collaborare con musicisti locali e ho capito che quest’occasione poteva non ripresentarsi.

Per quali congiunzioni karmiche è venuta fuori Ariana Delawari? Negli anni 60 mia madre, che è americana di origine afgana e italiana, è andata in Afghanistan per conto dell’Onu e ha conosciuto mio padre, che è un’economista. Negli anni 70 si sono prima trasferiti a Londra, poi negli Stati Uniti. La famiglia di mio padre aveva sempre partecipato attivamente alla vita politica del paese. Mio nonno era viceministro della Corte Reale. Con l’invasione sovietica del 1980 per i miei genitori la vita è radicalmente cambiata. Si sono impegnati moralmente ed economicamente per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema, hanno tentato di proporre soluzioni per portare la pace con campagne,petizioni al Congresso. Dopo l’11 settembre hanno deciso di tornare a Kabul per aiutare il processo di ricostruzione. Hanno venduto tutto quello che avevano, a partire dalla casa, e sono partiti. Mio padre si è occupato della riorganizzazione del sistema bancario e monetario e ha creato un sistema che rende meno lungo il processo burocratico per chi vuole aprire nuove imprese. È stato governatore della Banca Centrale, oggi fa il consulente economico.

Che rapporto ha con i suoi genitori? Mia madre la vedo più spesso perché da qualche anno vive un paio di mesi in America e poi ritorna in Afghanistan. Mio padre è sempre lì. Non credo andrà via finché non vedrà un cambiamento adeguato. Certo, ogni volta che squilla il telefono si va in ansia. Ma anche se è dura, sono del parere che debba finire ciò che ha iniziato.

L’ha capito presto che sarebbe diventata musicista? Quando ero bambina in casa si ascoltava di tutto: tradizione afgana, country, pop, Elvis, Cure, Depeche Mode e quello che trasmetteva Mtv. A tre anni ho sviluppato una vera passione per Madonna. A tredici è stata la volta di Jimi Hendrix e ho cominciato a suonare la chitarra. Scrivevo canzoni ma non le facevo ascoltare a nessuno, perché in quel periodo frequentavo la scuola di cinema e consideravo la musica un hobby. Un viaggio a San Francisco con quello che allora era il mio ragazzo ha cambiato le cose. Era un periodo politicamente molto delicato nella storia degli Stati Uniti a causa dei problemi post 11 settembre e avevo ancora in testa, nitide, le immagini del mio primo viaggio in Afghanistan. In quella città ho sentito una specie di “chiamata”. Mi capita spesso di assorbire l’energia dei luoghi che visito, soprattutto se sono ricchi di storia. Per esempio, a New York sento forti le vibrazioni di tutti i flussi migratori che le hanno dato vita e hanno creato questo paese. A Frisco ho assorbito l’energia degli anni 60. Tornata a casa ho scritto una canzone, San Francisco, e ho così trovato la mia strada. La storia d’amore, invece, era già al capolinea...

Qual è il potere di una canzone? Ha una grande forza. La vibrazione del suono è forza,l’emissione del suono è forza, le parole sono forza. L’arte, e quindi la musica, può dare forma al mondo. Credo che sia il mio disco, sia un documentario a cui sto lavorando con Emily Lynch, siano il mezzo migliore per raccontare chi sono, cosa penso e cosa ho visto in Afghanistan.

Come vi siete incontrati lei e David Lynch? La sera del mio primo concerto Emily (moglie del regista, ndr.), che conoscevo già, lo ha portato ad ascoltarmi. È rimasto molto colpito dalla mia musica e da allora siamo diventati amici. Ricevere complimenti da David Lynch, che è uno dei miei artisti preferiti in assoluto, è... una bella sensazione. Una volta ero a cena da loro e David mi fa: «Avrei voluto produrtelo io l’album». Lì per lì non ho capito bene cosa volesse dire, anche perché tra le parti registrate a Kabul e quelle registrate a Los Angeles, il lavoro era già quasi completo. Per cui gli ho risposto: «Perché non mi produci una canzone?», e gli ho affidato Suspend Me che trovavo perfetta per lui in quanto parla di espandere l’amore oltre il limiti del romanticismo. Alla fine ha anche deciso di mixare e pubblicare l’album. Comunque è riuscito a cambiare la direzione della canzone senza snaturarla, facendone emergere aspetti nuovi. Ed è riuscito a conciliare le mie due anime lasciando intatto il senso della mia storia: un viaggio andata e ritorno California-Afghanistan.

Cosa c’è in Afghanistan e in nessun altro luogo? Una grazia particolare. Gli afgani sono persone ricche di calore umano e di una generosità senza pari. La loro cultura è frutto di etnie diverse. Il mondo è abituato a vederli come mediorientali ma, per esempio, i Nuristani hanno occhi azzurri, pelle chiara e sangue greco, i Pashaila struttura ossea e gli occhi verdi degli indiani. È straordinario vedere insieme tanta bellezza. Inoltre prima di essere un paese musulmano, era un paese dell’Asia Centrale. Te ne accorgi dal cibo, dalla cultura, dalla musica.

Cos’è, invece, che ti fa più arrabbiare degli Stati Uniti? Gli Usa sono come un ragazzino: giovane, bello, con un senso di pura incoscienza, ma allo stesso tempo naïf e ignaro dell’effetto che le sue azioni possono avere sugli altri. In America si bada alla quantità più che alla qualità,tutto è spropositatamente grande, veloce. Da una parte c’è il senso di potere che dà l’essere nati in uno stato ricco e pieno di opportunità; dall’altra, invece, una superbia che si riversa anche sugli altri paesi. Una volta erano la terra delle opportunità, oggi esportano la cultura dell’istantanea gratificazione. La società è troppo egoista, squilibrata, ci sono persone ricchissime e altre costrette a vivere in rifugi o per strada. Dovremmo comporre le differenze, di pensiero ed economiche. E bisognerebbe capire perché c’è tanta gente arrabbiata. Limitarsi a eliminarla, come con i talebani, non serve a placare il malcontento.

In cosa credi? La religione mi affascina ma non mi considero religiosa. Seguo l’esempio della mia nonna siciliana che leggeva tutti e tre i libri sacri,Bibbia, Torah e Corano, e se le chiedevi perché, rispondeva che le religioni hanno più affinità che differenze. Leggo quei testi come se fossero dei meravigliosi libri di poesia.

Quando non sei presa dai tuoi progetti cosa fai? Mi diverto a cantare nel L.A. Ladies Choir, un coro a cappella tutto al femminile, creato dalle mie amiche Becky Stark e Aska Matsumiya. Indossiamo lunghi abiti vintage, mettiamo fiori tra i capelli. Ora siamo impegnate a sostenere Children Of The Night, un’organizzazione no profit che si prende cura di minorenni costretti alla prostituzione.

Di chi o di cosa sei innamorata al momento? Sono appena uscita da una relazione. Mi trovo in una fase strana: ho il cuore preso dalla responsabilità di fare qualcosa per l’Afghanistan. Ma so che se incontrassi qualcuno mi innamorerei velocemente.

Cosa ti fa arrabbiare degli uomini? In un uomo apprezzo integrità, intelligenza e umiltà,se non sono messe in mostra. Ma se sono esibite platealmente, mi fanno l’effetto contrario.

Hai un incubo ricorrente? Gli squali. Sogno di essere in mezzo all’oceano e... ci sono squali dappertutto.

Sei mai stata fraintesa? Nel 2008 ho fatto una cover di Crazy For You di Madonna e ho realizzato un video -visibile su YouTube - che voleva essere un ponte tra due culture diverse. Indossavo un vestitino corto, un paio di calze di colore diverso, una bianca e l’altra nera, e ballavo mentre sullo sfondo si alternavano immagini di Los Angeles e Kabul. Non c’era nulla di osé o provocatorio, eppure i giovani afgani si sono arrabbiati, ci sono state reazioni molto forti e qualche insulto. Alla fine ho deciso di cancellarlo da YouTube. Per una mia canzone non l’avrei mai fatto. Con quel video non volevo offendere nessuno, né provocare una reazione. Volevo solo offrire una soluzione.