Nella scena finale di Fandango Kevin Costner sta per passare la linea d’ombra, sta per diventare grande, ma non si sa se lo farà. Dice solo: «Mettimi un fandango» e comincia a ballare.
Io invece ho questo amico Marco che quando lo conobbi fece il più bel discorso che avessi mai sentito. Avevo solo sedici anni e non ne avevo sentiti molti, ma quello fu proprio un discorso per gli angeli.Avevamo occupato la scuola e io avevo preparato una mozione, una piccola lista di rivendicazioni, interrogazioni programmate, cose così: contavo e ricontavo quelli che in classe mi avrebbero appoggiato e davo per scontato che questo Marco sarebbe stato il primo perché era del Movimento Studentesco. Invece lui si alzò e disse che delle mie interrogazioni programmate e di tutto il resto non gli fregava proprio nulla. Anzi. Mettersi a discutere, a contrattare, era aver già perso in partenza.
Noi eravamo lì per cambiare il mondo, non per i compiti in classe di gruppo. Cominciò a dirci come, e man mano che andava avanti noi vedevamo tutto che esplodeva e si disarticolava e ricadeva giù come nel finale di Zabriskie Point; la rivoluzione, mica un piatto di lenticchie. Così quando finì ci fu questo grande silenzio, anche la professoressa non parlava e io mi alzai e dissi: ha ragione lui, ritiro la mozione. La cosa strana è che qualche anno dopo andammo insieme a vedere Il Grande Blek e ci rimanemmo secchi perché quei due sullo schermo, Yuri e Razzo, erano proprio come noi un tempo. Il film l’aveva prodotto Domenico Procacci con una piccola casa di produzione che si chiamava Vertigo e che dopo è diventata: Fandango. «Eravamo tutti amici dai tempi della scuola di cinema, è finita che io son diventato quello che trovava il denaro. Mio padre aveva un’impresa di costruzioni a Bari, garantiva per me, e così mi ha aiutato e con i soldi dell’articolo 28 abbiamo prodotto Il Grande Blek, il primo film di Giuseppe Piccioni. A quel tempo ognuno cercava un po’ la sua strada: Sergio Rubini voleva fare il protagonista de La Stazione, un testo teatrale di Umberto Marino, ed era una scommessa proprio perché molto teatrale. La regiadoveva farla ancora Piccioni, ma io ho visto quanto ci teneva Rubini,quanto era suo quel progetto, e gli ho detto: dirigilo tu. E così quello è stato il primo film di Rubini regista».
Piccioni, Grimaldi, Rubini. E Ligabue, Muccino, Crialese, Sorrentino, Garrone. Quasi tutti presi da subito, da piccoli. È naso? Quando vado a intuito ci prendo, in genere. Quando ragiono va peggio.
Allora su La Bionda di Rubini ha ragionato molto. Era il terzo film, avevo trentatre anni e mi sono ritrovato con tre miliardi di debiti. Il costo del denaro era al 18%, mi dicevano che avrei fatto bene a fallire, chiudere tutto e tanti saluti: dopotutto, ci sono decine di storie così nel cinema. Ma mio padre m’ha insegnato che se sbagli devi pagare, e io sono andato avanti, ho pagato. Per cinque anni il mio lavoro era chiamare le banche, dalle nove di mattina alle tre del pomeriggio: quanti assegni sono arrivati oggi? Gli ottimisti dicevano che sarei durato qualche mese, io mi vedevo costantemente rovinato, ma non ero particolarmente depresso, facevo solo molta fatica: alle undici di sera mi addormentavo dovunque fossi.
Ma agli amici, quelli che le stavano intorno, che cosa raccontava? Non ho molta gente con cui parlare dei fatti miei, non dò molta confidenza.
E le donne? All’epoca ero fidanzato con Francesca Neri, che mi dava forza. Ma era complicato anche quello.
In che senso? Preferisco non parlarne.
E le altre? Ce ne sono state altre, no? Sì, ma non ne parlo.
Il primo bacio? Non me lo ricordo.
La prima scopata? Ma che domande sono?
Quand’è che è tornato a galla? Con Radiofreccia, di Ligabue. Ha vinto David di Donatello, Nastro d’argento, tutti i premi per gli esordienti. E lì ho smesso di essere un produttore di nicchia, sono passato da produttore di film da festival a produttore che può anche guadagnare. È diminuita la simpatia che avevo intorno, ma son diminuiti anche i debiti.
Come ha fatto? Con la tenacia, una caratteristica che bisogna avere. La convinzione. Avere un progetto ti permette di tenere una linea e di seguirla. È importante avere una coerenza, io non ho mai fatto cose in cui non credevo. Voglio dire: non necessariamente la qualità dev’essere per pochissimi, no? Ho letto i racconti di Ligabue, insieme con le sue canzoni erano già un mondo. Gli ho chiesto di scrivere una sceneggiatura e quando l’ho letta gli ho chiesto di fare anche la regia. È raro che un copione sia così buono, bisognava solo portare sullo schermo quella visione: sarebbe stato più difficile trovare un regista che la rielaborasse. Antonello Grimaldi l’ha aiutato un po’, ma Ligabue conosce il cinema, aveva un sacco d’idee e di talento: non pensavo che sarebbe venuto così bene, davvero.
E le ha risolto un po’ di problemi. Quelli li ha risolti davvero L’Ultimo Bacio, due anni dopo. Ho smesso di addormentarmi alle undici.
Però Muccino lo conosceva già bene. Ho prodotto i suoi film a partire dal primo, Ecco fatto.
Naso? Fin dall’inizio Muccino aveva un’idea di cinema molto precisa. Per qualcuno lui è come i Vanzina, per me invece è un autore importante e mi piacerebbe continuare ad accompagnarlo nella sua carriera. All’epoca m’aveva colpito che volesse raccontare storie di ragazzi che giravano tutte intorno alla gelosia.
Si vede che lui è geloso. In maniera patologica.
Lei? No.
Cosa cerca in un film? Secondo le indagini di mercato, l’impegno è al 4,5%. La principale motivazione che spinge la gente a vedere un film è: che mi spenga il cervello.
E allora lei non è fuori sync? No, però certe volte mi chiedo: ma questo film lo sto facendo contro? Non è che proprio voglio fare i fuochi artificiali, ma non ho voglia di produrre cose che non facciano pensare e allora il gioco è quello: non stare nella nicchia, ma tenere acceso il cervello di quelli che lo spengono. Se è il caso,scavare in certi argomenti, non lasciarsi guidare dai gusti del pubblico, ma trovare un pubblico per quello che hai in mano come produttore. Gomorra è un esempio: una serie di storie che s’intrecciano senza nemmeno un protagonista. Ho pensato: ecco un bel film da festival, troppo difficile per un pubblico più ampio. E invece ha fatto come il libro, un grande successo.
E lei? Ha avuto successo? No, ho avuto dei risultati. Il successo è quando porti a buon fine un progetto e io non l’ho ancora fatto. Si può fare di più e meglio, si possono coniugare cinema, editoria e musica in un progetto che stia in piedi anche dal punto di vista economico. La difficoltà è quella: fare impresa, e quindi guadagnare, ma senza perdere in qualità, aiutando la produzione artistica. Facendola esprimere. Mi piacerebbe fare un film sui fatti di Genova, sulla caserma Diaz. Ovviamente è molto difficile trovare dei finanziatori in Italia, li cerco più in Francia e in Germania. Ma non è solo quello. Anche se arrivasse un mecenate, non basterebbe: mi sarebbe molto simpatico, ma il mio lavoro consiste nel costruire un’impalcatura più larga per rendere visibile il film. Capire che tipo d’investimento, che tipo di presentazione fare. Quali attori,di che nazionalità. A quali festival andare. Berlino? Cannes? Far leggere i copioni in giro, seguire il film, i dvd, i premi.
Quanto guadagna? Se la società è tua e continui a investire lì anche solo acquisire i diritti di un film è un guadagno. Tutto diventa un progetto. D’altra parte non ho mai avuto il mito del denaro come meta. Non ho quelle due o tre famiglie che hanno tutti quelli della mia età. Non ne ho neanche una da mantenere, a dire il vero. Non ho il mito delle vacanze, né quello dell’ostentazione. Il denaro mi serve solo come mezzo per fare le cose. Son più contento di comprare i diritti di un film che una casa, voglio dire.
Non è proprio in linea con il mondo. Una volta la furbizia non era considerata una qualità, non era una cosa positiva. Oggi è il massimo. Il fatto che sia andata a finire così, che i valori correnti siano questi, non significa farli propri. Per me non è così, almeno.
Ma la linea d’ombra, quella di Fandango, a questo punto l’ha passata? Non lo so. Non so più dove sia, quella linea.Già, chi lo sa. Son passati quarant’anni da quel discorso per gli angeli e Marco e io siamo ancora amici. S’è appena comprato una Ducati Monster, poi s’è dimenticato che stava andando in moto, s’è girato a parlare con la ragazza seduta dietro ed è finito in un fosso. Non s’è fatto niente, ma si vede che era destino: mentre parlavo con Procacci c’era un bell’integrale sulla libreria e così alla fine gli ho chiesto che moto avesse. «Niente di speciale. Una Monster». Ecco, appunto. Mettimi un fandango, va là.