Dopo quattro anni di richieste e attese, ti dicono che puoi incontrare Marc Jacobs non per pochi minuti (come succede nei dopo sfilata) ma a Londra per un evento internazionale. Chi riferisce la notizia è l’entusiasta voce dell’ufficio stampa Louis Vuitton che mi fa notare che sono l’unico italiano fra cinque giornalisti. Beh, se non si può avere un tè con la regina Elisabetta, si può sempre accettarne uno con il re del grunge, del pop-luxe e di tutti gli altri stili che questo stilista americano ha lanciato nel corso degli anni.

Di star internazionale pur sempre si tratta: più volte pubblicato nella classifica di Time come stilista fra i più influenti, rappresenta per le giovanissime (comprese quelle sui quaranta) una sorpresa continua fra borse ironicamente logate e gadget ambitissimi (fra cui i libri, ha appena aperto un bookshop a New York). Le altre donne invece lo vedono come l’eterno ragazzo (ma l’anagrafe rivela: nato nel 1963) che ha reso il vintage desiderabile e moderno come nessun altro.

Per me Marc Jacobs è il tipo di cui seguo con simpatia i look (classici o trasgressivi come i suoi kilt di Comme des Garçons), il gossip (“Ma si è veramente lasciato con il sorridente Lorenzo Martone?”) e le interviste piene di paradossi e buon senso.

Il mio primo incontro con lui è casuale e non calcolato dai vari pierre, guardie del corpo e assistenti personali. Sorride e saluta tutti mentre visita il rinnovato negozio di New Bond Street per il quale il marchio francese, dice l’Evening Standard, pare abbia speso almeno 30 milioni di sterline per ampliarlo, farlo arredare dall’intuitivo architetto Peter Marino e decorarlo con pezzi da museo. Non per nulla lui, appena arrivato da New York, lo guarda con gli stessi occhi ingenui e sorpresi di chi vede opere d’arte che si muovono, per la prima volta. Può il direttore artistico di Vuitton non aver visto in anteprima l’arredo di una delle boutique Vuitton più importanti al mondo? Volendo, può. Lui da Vuitton può fare tutto. O per lo meno finora ha sempre fatto quello che ha voluto. Dalla prima sfilata 12 anni fa quando tutti si aspettavano LV stampate ovunque e invece videro solo abiti senza logo, che avevano reso minimale persino Naomi Campbell.

Il ragazzo di New York è riuscito a smitizzare un simbolo francese come la Toile Monogram con delle scritte da graffitaro (o griffattaro?) del suo amico artista Stephen Sprouse (scomparso nel 2004). O ancora a portare l’arte sulle passerelle ringiovanendo questo mondo e creando nuove appassionate.

D’altraparte è un vero talento. Lo dicono tutti quelli che hanno lavorato per lui. Anche Camille Miceli che disegnava per Louis Vuitton i bijoux, Anna Wintour (alias Il Diavolo veste Prada) e Katie Grand, stylist inglese direttore di Love, con cui collabora e che per lui ha creato una mostra (nel 2011 nelle boutique di New Yorke Parigi): «Non vuole essere chiamato genio, perché lui ascolta tutti, rielabora e poi arriva con delle sorprese. Solo chi ha talento può permettersi questo». E aggiunge: «Marc, davvero, non ha ancora visto il risultato finale, ma sa tutto. Anche se non era con me negli archivi, abbiamo un modo di comunicare molto personale».

E infatti quando lo stilista si siede su un divano, che a fianco ha un baule personalizzato da Damien Hirst, conosce a memoria ogni abito, borsa e gli anedotti non mancano: «Prima della sfilata non ero convinto di questo look ma poi ho capito che ci voleva ed è andata bene».

Anche dei camici da infermiera ispirati ai quadri di Richard Prince dice: «C’è voluto tanto tempo per trovare un tessuto esclusivo, che fosse nuovo, ma anche avesse qualcosa di sensuale come lo sono le infermiere di Richard».

Tutto questo Marc lo asserisce con la voce sicura di un tenore e la simpatia di uno showman anni 50 oltre che la calma che mai ti aspetteresti da una star ribelle come talvolta appare. Anzi distilla complimenti oculati e rimane gentile anche se si entra nel momento sbagliato nella sua stanza. È capitato al sottoscritto che, catapultato nel salotto di una suite dell’hotel Claridge’s, ha disturbato lo stilista mentre andava a rinfrescarsi dopo un’ora e mezza di interviste. Ma al suo veloce ritorno era ancora scattante, pronto a regalarmi qualche minuto del suo prezioso tempo.

Dopo il connubio fra moda e arte: cosa c’è di nuovo? Per noi è difficile dirlo perché è stato un legame nato dalla passione personale verso certi artisti. E sono convinto che evolverà ancora.

Si sente un esperto in materia? Assolutamente no. Posso dirle che sono un amante delle grandi emozioni. Ma non sono tanto diverso da quei gruppi di fans o famiglie che girano per le gallerie di NewYork nel weekend.

Però sono in pochi ad aver chiesto all’azienda per cui si lavora soldi in anticipo per comprare dipinti per casa propria... Non potevo vivere senza certe tele di Ed Ruscha e Richard Prince. Fanno parte di me e della mia storia.

È con questo gesto che ha convinto l’artista a collaborare con Louis Vuitton? Non esattamente. Richard ha accettato più per vedere cosa avrebbe portato questa intesa che per un vero fine commerciale.Era molto curioso di conoscere gente e reazioni.

Grazie a lei la fruizione di tele e sculture è diversa. Non è solo merito mio.Penso che la gente abbia capito che l’arte stia cambiando il suo modo di proporsi e certe vetrine, come quelle di Vuitton che hanno dietro un concept, offrono una visione estetica sorprendente che è quasi simile a quella di un capolavoro.

Quelle della boutique di Londra sono ispirate a tentazioni e a ossessioni. Lei ne ha qualcuna? Sì, e sono contento di averne. In questo caso credo che gli animali (gufi, galli, rane, camaleonti, conigli...) realizzati con articoli LV siano, più che l’ossessione dell’accumulo, un esempio della bravura degli artigiani.

Quando lei propone delle novità da realizzare l’accontentano sempre? Certo! All’inizio è difficile sperimentare per problemi tecnici, poi sono così appassionati e non demordono. E poi è questo quello che vogliono dame. Sempre qualcosa di nuovo.

Lei però ama il vintage. Come concilia? Parto dal passato perché sono le nostre radici che non possiamo dimenticare, i nostri ricordi. Quando riguardo certi capi mi accorgo che la bellezza non ha età, non solo con le donne, ma anche con i vestiti.

Per questo motivo che ha scelto come tema d’ispirazione dell’ultima sfilata il film E Dio creò la donna? L’ispirazione è la donna. Abbiamo pensato alla gioia di esserlo. Non ci sono pantaloni. Tutto è femminile e la bellezza arriva anche dall’alta qualità dei tessuti superbi,preziosi e inattesi che abbiamo scelto sia per la moda sia per gli accessori.

Quale accessorio vorrebbe ancora disegnare? Penso sempre a un profumo Louis Vuitton e, avendo arredato casa a New York, sarei tentato di creare qualche pezzo. Vedremo, tutto è evoluzione.

Non ha mai avuto dei momenti “no” con Vuitton? Non con le persone con cui lavoro. E neanche per le collezioni. Perché qualità e passione in questa maison sono fortissime. Solo il gusto è soggettivo e non dobbiamo piacere a tutti. Devo portare il cambiamento. E anch’io voglio cambiare, altrimenti mi annoierei.

Ecco perché è considerato cool... Non dica questo. Il mio obiettivo è che la gente che pensa a me o a quello che creo, senta onestà e integrità in due versioni, americana e francese.

Ma in un mondo globalizzato e delocalizzato nelle produzioni, cosa c’è di autentico? Da Vuitton tutto è veramente francese, nella concezione e realizzazione. Che poi la stessa borsa si venda uguale anche ai tropici è perché le persone hanno tutte le stesse esigenze. Per chi viaggia ci sono sempre le edizioni limitate.

Dell’Italia cosa pensa? Bene! Ma ci vengo poco. Sono stato alla Biennale di Venezia. Adoro Miuccia Prada. Davvero!

E a Londra viene più spesso? Ho molti amici ma sono sempre di passaggio.Non ho indirizzi da consigliare se non quello di New Bond Street perché è una sorta di Disneyland per persone che amano il lusso. Credo sia la prima boutique al mondo dove si possa fare una caccia all’opera d’arte fra un piano e l’altro alla ricerca di un Gilbert&George o di un Takashi Murakami: impressionante! E se hai la fortuna di vedere quello più alto, The Apartment, con pezzi di Jeff Koons, Jean-Michel Basquiat, beh, hai fatto bingo!

Lei però una volta disse che il vero lusso non era avere bauli di Vuitton, ma uno spazzolino da denti e una carta di credito per girare il mondo. Concorda ancora? Il concetto è stato travisato. Avere i bauli (e non solo quelli) è certo un grande lusso. Ma il concetto di lusso non ha mai fine. C’è sempre qualcosa di superiore. E noi dobbiamo cavalcare e superare quell’onda.