Il volto di un giovane uomo in una foto in bianco e nero degli anni Cinquanta. Una mano lo rade, tenendogli sollevato il mento, e un serpente metallico simil-Alien gli esce dal collo, dove campeggia tranquillo un orecchio. È un fotomontaggio di Joseph Mills, che ha sofferto di schizofrenia e tenta di riprodurre nella sua opera le immagini perturbanti delle sue visioni. André Breton è dietro l’angolo. E anche Amélie Nothomb, che - protetta da una parete che nasconde un piccolo bureau - è lì a chiacchierare con il giovane titolare dalla lunga chioma nera della galleria nel Marais dove mi ha dato appuntamento.

Oggi non ci incontriamo nella “zona franca” della sua casa editrice parigina Albin Michel, dove Amélie - dopo la seduta di scrittura notturna dalle quattro alle otto - va ogni mattina a rispondere ai lettori e dove di solito fa le interviste. Mi saluta con la cortesia circospetta che deve aver imparato nelle ambasciate in cui è cresciuta.

Figlia di un diplomatico belga, è nata a Kobe, in Giappone, dove ha vissuto i primi cinque anni convinta di essere una figlia del Sol Levante, persa nel mito della bellezza nipponica, un ideale di purezza, concisione e rigore che si ritrova nella sua scrittura, elegante come una composizione di ikebana. Bellezza che spesso nasconde un coacervo di perfidia, come il magnifico volto della signorina Fubuki, suo superiore alla Yumimoto, l’azienda di import-export che la assunse quando decise di ritrasferirsi in Giappone, dopo aver finito gli studi in Belgio. L’odio della donna, raccontato in Stupore e tremori - a tutt’oggi il suo bestseller - la fece retrocedere di settimana in settimana fino all’umiliazione finale della pulizia delle toilette degli uomini.

Nel frattempo, la ventenne Amélie viveva una strampalata storia d’amore con un coetaneo giapponese, Rinri, che in quest’ultimo romanzo Né di Eva né di Adamo - vincitore del Prix Flore, che le è stato attribuito dal celebre caffè di Saint-Germain-des-Près - assume i toni di un esilarante scontro di culture. Il fraintendimento, che in amore è in agguato anche se si parla la stessa lingua, tra Belgio e Giappone diventa la struttura stessa della relazione. Con effetti comici di cui lei è maestra.

«È strano perfino per me pensare che Stupore e tremori e Né di Eva né di Adamo si svolgano nello stesso anno. Uno è l’antitesi dell’altro: il primo racconta un’umiliazione professionale assoluta, uno scacco totale, una caduta nell’abnegazione di sé. L’altro è una meravigliosa vicenda di esaltazione dell’ego. Ventunenne, con un bagaglio di situazioni sentimentali umilianti, patetiche, per la prima volta incontrai un uomo che mi considerava una principessa. Un amore che mi ha fondata, come individuo».

Eppure in amore e dintorni la Nothomb è sempre stata vittima di terribili donne-vampiro. Elena in Sabotaggio d’amore, Antichrista nel romanzo omonimo, Fubuki in Stupore e tremori

«Ho quarant’anni e un bagaglio di storie considerevole. Non sono sadica né masochista, e faccio del mio meglio per procurarmi la felicità, ma Dio, quant’è difficile! Nei rapporti in genere, ma soprattutto in amore, che è la cosa per cui veniamo al mondo, il potenziale di distruzione e di crudeltà che ognuno di noi ha in sé è quasi una legge di natura. C’è una specie di fatalità: più si vuole fare del bene, più si finisce per ferire. E i rapporti spesso si riducono al barbaro schema persecutore-vittima, e a quella lotta per il potere che è la costante più frequente e noiosa in ogni relazione. È un’impresa ardua opporsi a questo cliché, le uniche armi sono la civiltà e la tolleranza. Il modo più pietoso di eliminare l’amante secondo me è una bella coltellata. Ci sono forme più crudeli, consentite dalla legge: si può uccidere qualcuno lasciandolo clinicamente vivo, in una condizione di morte a fuoco lento. Con Rinri, ho optato per la fuga. Era un essere troppo puro per sopportare una spiegazione imbarazzata. E fuggire in amore non è considerato un gesto nobile. Ma il delitto peggiore è quello che spesso ognuno consuma contro di sé, rinunciando alla libertà».

Una creatura a metà tra Cappuccetto Rosso e il lupo. Così, qualche anno fa l’ha definita un critico. Il volto di porcellana esibisce un candore infantile naturale quanto un giardino zen, e chi ha frequentato la galleria di sulfurei personaggi e il bouquet di ambiguità, sarcasmo e crudeltà dei suoi romanzi non esiterà a vedere in lei il lupo. Tradotta in quaranta paesi, dall’esordio folgorante di Igiene dell’assassino quindici anni fa si è sempre presentata puntuale a settembre con un nuovo libro che in Francia, sua seconda patria, regolarmente scala la vetta delle classifiche.

«È un evento stagionale», dice, «come il letargo o la migrazione degli uccelli. E se dovessi pensare a me come a un animale, sceglierei l’ornitorinco, uccello, pesce e mammifero insieme».

L’ultimo titolo, il sedicesimo (di una sessantina, ma quelli “impresentabili” li tiene gelosamente nascosti), non ha fatto eccezione. Intorno ad Amélie Nothomb aleggia un improbabile groviglio di miti: il record di discesa del monte Fuji, il collezionismo di enormi cappelli stravaganti, l’insegnamento del baciamano ai manager giapponesi, la battuta raggelante della futura suocera giapponese: «È inutile che ti sforzi, con un volto così espressivo non sarai mai una signora». E poi la grafomania, l’alcolismo infantile, l’anoressia, sindrome condivisa con l’adorata sorella Juliette, che cominciò a scrivere prima di lei per poi imboccare la carriera (a uso di amici e parenti) di cuoca sopraffina. Di questa mitologia non si è mai curata. Non ammette né smentisce: rimane avvolta nel mistero, incoraggia i lettori a considerarla un personaggio da romanzo gotico, pieno di sfaccettature imprevedibili, ambivalenti. Ma in quest’ultimo libro autobiografico molte leggende trovano un riscontro nella realtà.

La liaison con il giovane giapponese era stata attentamente celata in altri libri autobiografici. In Stupore e tremori una sola frase alludeva a un episodio piacevole in quell’annus terribilis. Chissà se questa vicenda atteneva all’universo dei romanzi proibiti, quelli che tiene sotto chiave, con tanto di disposizioni testamentarie che impediranno di pubblicarli perfino dopo la sua morte. Ma è anche vero che ama i giochi di scatole cinesi. «Ognuno dei miei libri autobiografici è la dilatazione di un episodio, che la lente d’ingrandimento della scrittura trasforma in un paradigma». Qui è l’incontro-scontro tra i sessi, ingigantito dall’appartenenza a due culture antitetiche, quella orientale e quella occidentale. «Questa relazione era cominciata basandosi sulla lingua: io ero la sua insegnante di francese. La parola è il campo di battaglia dei sentimenti. Paradossalmente parlare lingue diverse è un vantaggio, la difficoltà di comprendersi è dichiarata, abolisce l’illusione di capirsi. In amore ci si fraintende di continuo, ognuno fa riferimento al suo universo emotivo traducendolo in parole sempre inadeguate».

Il ragazzo si sente in dovere di percorrere con la straniera Amélie le tappe preconfezionate del corteggiamento nipponico, che prevede siti romantici ad hoc. Amélie lo sconvolge con la sua franchezza. La futura suocera le rivolge critiche al vetriolo. Lei tenta invano di spiegare a un Rinri irritato il fascino ambiguo di Hiroshima mon amour di Marguerite Duras. Lui si trasforma in una consorte giapponese che trascorre la serata ai fornelli, dando in pasto Amélie a un consesso di amici. Lei lo lascia al palo trasformandosi in alpinista nella scalata del monte Fuji. E via di seguito. Il colmo dell’incomprensione la coppia lo raggiunge al cinema a vedere Le relazioni pericolose di Stephen Frears. La raffinata crudeltà manipolatoria della coppia marchesa di Merteuil-visconte di Valmont manda in estasi Amélie, mentre Rinri si identifica con madame de Tourvelle e si dispera per la sua sorte.

Insomma, i due sono lontani, lontanissimi, quasi avessero una composizione diversa come l’acqua e la pietra. E quando la pietra rivolge all’acqua una domanda di matrimonio, quella non può che scorrere via più rapida di una cascata:

«Non si trattiene l’acqua. Sì, ti irrigherò, ti elargirò la mia ricchezza, ti rinfrescherò, placherò la tua sete, ma cosa ne so di quale sarà il corso del mio fiume, tu non ti bagnerai mai due volte nella stessa fidanzata. Questi esseri fluidi attirano su di sé il disprezzo delle folle quando invece i loro atteggiamenti ondivaghi hanno permesso di evitare conflitti. I grandi blocchi di pietre virtuose, che nessuno la finisce mai di elogiare, sono all’origine delle guerre. Certo, quella con Rinri non era una questione di politica internazionale, ma ero stata costretta a scegliere tra due rischi enormi: uno si chiamava sì, ed era sinonimo di eternità, sicurezza, solidità, e altre parole che fanno gelare l’acqua per il terrore; l’altro si chiamava no, e si traduceva in strappo, disperazione, e io che credevo che mi amassi, non farti più vedere, eppure sembravi così felice quando, e altre parole definitive che fanno ribollire l’acqua per l’indignazione, perché sono ingiuste e barbare».

Fuga dal Giappone, dunque. Fuga dall’azienda, dal futuro sposo. La vita evidentemente le riserva un destino diverso. Per un anno si rifugia a Bruxelles, a casa dell’adorata sorella Juliette che ancora oggi è l’unica editor di tutti i suoi libri (compresi gli “impresentabili”). E scrive, scrive, scrive. «Avevo cominciato quando mi ero trasferita in Belgio per la prima volta, per frequentare l’università, a diciassette anni. Ma era una scrittura debole, che non sgorgava naturalmente, dovevo strapparmela da dentro. Come in una fiaba mitologica, ho dovuto ritrovare il mio paese di nascita per accedere all’energia galvanizzante della mia infanzia. Solo così sono riuscita a trovare la mia voce autentica di scrittrice. Quella che ancora oggi nutre tutti i miei romanzi».