Al liceo ha quasi dato fuoco all’aula di chimica. Ma di quell’episodio non si è occupato nessuno. Niente tv, radio, giornali. «Oggi invece se un marziano sulla terra raccontasse ai suoi amici gli adolescenti - in base ai quintali di carta scritta o ai telegiornali - direbbe che sono autolesionisti, distruttivi e che passano il tempo a picchiare i compagni nei bagni e buttare sassi dal cavalcavia ». Perché i «ragazzi» - nuova categoria aristotelica - vengono studiati come insetti, descritti in modo scandalistico. Oppure aiutati, come se la loro non fosse un’età ma una patologia. Stufo della smania classificatoria, lo scrittore Andrea Bajani si è compromesso. Si è calato in mezzo a loro. È tornato sui banchi: ha parlato, incontrato, chattato con 150 teenager sparsi tra Torino, Firenze e Palermo. Risultato: Domani niente scuola (in uscita il 16 settembre da Einaudi), reportage “ad altezza d’occhi” di tre gite di classe (e parecchio di più), raccontate da un infiltrato speciale.

Cos’ha notato osservando da dentro questa generazione descritta «come un branco indistinto di depressi, composto da picchiatori e troie in erba»?

Che le etichette non dicono il falso ma ci assolvono dalla responsabilità di conoscere. E che quando vai a vedere cosa c’è dietro quella conclusione ti accorgi che non è tutto lì, e che l’adolescenza è sempre la stessa cosa: un tentativo costante di tirar fuori la testa dall’acqua. I teenager non sono una tribù di abitanti dell’Angola ma esattamente quello che eravamo noi. Anche dal punto di vista sesso- amore: ci sono coppie che stanno insieme da anni. Legami adulti. Che non vedo nemmeno tra i miei coetanei.

Come si fa a entrare in contatto con loro, a conquistarne la fiducia a essere nello stesso tempo lontano e vicino?

A me è venuto abbastanza naturale. Un po’ ha aiutato l’anagrafe. Sono un trentenne che si è mescolato a 17-18enni, quindi uno un po’ più grande ma nemmeno troppo, che riconoscono anche esteticamente. Per dire, magari ho l’iPod del modello più vecchio del loro, ma ce l’ho. Ho occupato lo spazio affettivo di uno zio. All’inizio non è stato facile, una parola sbagliata e potevo finire divorato vivo o dritto dalla parte dei professori. Devi riuscire a metterti in contatto senza scimmiottarli, raggiungerli mantenendo la tua personalità. Ti devi aprire, mostrare per come sei. E soprattutto ti devi tenere la tua età.

Un momento difficile?

Le partenze. Anche se li avevo già visti in classe e se sono uno socievole, al momento di salire alle sei di mattina su un pullman con 60 adolescenti che ti studiano, io da ateo non battezzato mi sono fatto il segno della croce.

Differenze tra maschi e femmine?

Le solite: le ragazze sono più mature emotivamente. Magari i maschi - per colpa del trituramento che gli arriva dagli adulti - sanno benissimo che facoltà fare per trovare un lavoro, ma sono iperinfantili negli affetti. A 18 anni passano le nottate a giocare a cuscinate!

Cosa l’ha intenerita di più?

Il bisogno di comunicare, la fiducia nei miei confronti. I cori che mi dedicavano in pullman. La necessità costante di contatto fisico. Passano i pomeriggi dietro ai monitor, su msn, eppure per loro essere in contatto vuol dire stare impilati su una sedia uno in braccio all’altro. E poi rispetto a quanto si crede esprimono molto i loro sentimenti. In gita ho sentito ragazzine dire alle professoresse «le voglio bene », e io non sapevo se essere basito o arrabbiato.

Cosa pensano della scuola?

Nel complesso non capiscono tanto a cosa serve. Un po’ è colpa dei genitori che tendono a far passare i professori per deficienti. I ragazzi non la pensano così, però sognano l’ultima campanella e il momento in cui andranno a casa. Ma quando qualcuno riesce a fare breccia, quando viene percepito come vivo e vibrante, si innamorano.

Cosa non vedono i genitori di loro?

Non vogliono aprire la porta. Magari si chiedono chissà cosa combinano nelle loro stanze, ma poi si fermano lì, senza entrare.

Cosa non vedono i professori?

Quando i loro alunni mandano sms. E i tratti comuni alla loro età.

Cosa non vedono i ragazzi?

Il futuro. Mi è capitato di chiedere «se dicessi domani, tu cosa diresti?» e le risposte più comuni erano «adesso, ieri, stasera». Non riescono a vedersi grandi.

Una differenza tra i suoi e i loro 17 anni?

Io volevo togliermeli di dosso il prima possibile, loro dentro ci stanno bene. Se ripenso a quel periodo sento ancora il frastuono. Un trapestio continuo: puoi diventare tutto o niente. Si sta molto meglio quando si è trovata la propria parte nel mondo.

La domanda che le hanno fatto più spesso?

«Ma cosa te ne frega di noi?». Non so quante volte me l’hanno chiesto in tre gite. Erano stupiti, affascinati e terrorizzati dal fatto che qualcuno provasse curiosità nei loro confronti. Vivono un po’ come se gli adulti fossero scomparsi dalla faccia della terra, e quando arriva uno dall’esterno che percepiscono come interessante si infiammano subito. Hanno una voglia pazzesca di confrontarsi. Per questo la mia moleskine era un morboso oggetto di desiderio.

Di cos’hanno paura?

Hanno paura. Del domani, di fare passi lunghi, del ragionamento complesso. E di uscire dalla stanza, per cui si mantengono sul bordo e fanno manutenzione. Per loro ero un’opportunità: sono stato io a entrare sottocoperta per cui potevano mostrarsi senza scoprirsi troppo.

La cosa che li caratterizza?

Sono una generazione con colonna sonora costante: l’iPod è il miglior amico del teenager.

E adesso li sente ancora?

Sono prigioniero. Molti hanno fatto la maturità ed è stato tutto un confrontarsi su risultati, tesine, voti, cene di classe. Le ragazze mi telefonano per le consulenze sentimentali, lì vado fortissimo. I ragazzi si connettono e mi mandano da ascoltare il pezzo che hanno composto, la nuova versione con l’aggiunta della batteria suonata dall’amico.

In chi si è immedesimato?

È stato un processo psicoanaliticamente utile, mi sono venute su un sacco di cose della mia adolescenza. Mi sono rivisto nei curiosi timorosi, in quelli che magari non dicevano niente ma si vedeva che mentre parlavo gli si accedeva la lucina negli occhi e poi l’ultimo giorno ti facevano tutte le domande del mondo e di cose da dire ne avevano. E poi nei goffi, nei timidi. Io ero così: un ragazzino esibizionista e introverso. Per cui li guardavo con tenerezza e mi veniva da dirgli «dài, dài, vedrai che ti andrà bene».

Come li immagina tra dieci anni?

Vorrei seguirli passo passo e non trovarmeli davanti all’improvviso. Vorrei che gli adulti prendessero fiducia e la dessero ai ragazzi per fargli passare quel disincanto che hanno in parte respirato da noi. Mi sembrano professionalmente molto determinati ed emotivamente molto disorientati. Noi avevamo una famiglia che era un termine di paragone, un punto fermo. Ci confrontavamo con quel mondo lì. Adesso genitori e figli sono troppo simili e avere punti di riferimento così uguali quando sei giovane ti fa sentire in mezzo al guado.

La cosa più faticosa?

Tenere i loro ritmi. Il secondo giorno della prima gita avevo la testa che ululava di dolore. Sono uscito dall’albergo e ho sperato che al mio ritorno fossero usciti. Quando li ho visti che mi aspettavo volevo morire. Poi ci ho fatto il callo e alla terza gita ero uno spavaldo 17enne.

L’anima dove la mettono?

In un sacco di cose: moltissimi nello studio. Ma è una fase in cui non hai ancora una personalità autonoma. E allora l’anima si accende se qualcuno si prende la briga di metterci il cerino.

Cosa le è rimasto addosso?

Quest’esperienza mi ha cambiato un po’ la vita, è stato un modo di vincere la sfiducia nei rapporti tra le persone e tra le generazioni. Mi ha lasciato anche un sacco di responsabilità, sono persone che mi porto dietro, non credo che smetterò di sentirli tra un mese. E poi adesso rompo più che mai i coglioni al mondo sul fatto che gli adolescenti non sono quella roba lì. E se prima i servizi in tv mi infastidivano, adesso spengo direttamente. Raccontano un’altra storia, non quella che conosco io.