Ho preso una cotta per una piccola foto in bianco e nero che circolava su internet. Non era neppure a fuoco, poco più che una fototessera in cui lei, Kathryn, si nascondeva dietro a un paio di enormi occhiali da sole, alle spalle di una cinepresa. Non esistono servizi fotografici, ritratti o cose del genere. La sua discrezione maniacale, questo suo essere schiva che rasenta l’eremitismo mediatico, racchiude un messaggio: per conoscermi, guardate i miei film. E io, i suoi, li ho visti tutti.

Kathryn Bigelow è entrata nella nostra vita di spettatori diciassette anni fa. Nessuno da questa parte dell’oceano sapeva chi fosse, anche se lei un nome se l’era fatto, non marginalmente in quanto moglie di James Cameron, regista di Titanic. È durata poco, un paio di anni, ma hanno continuato a collaborare anche dopo.

Da noi Kathryn si è manifestata quando una generazione di mocciosi è stata contagiata dalla febbre del surf grazie a Point Break. Patrick Swayze, Keanu Reeves, bicipiti in fuori, scenari formidabili, una banda di rapinatori avidi di denaro e di libertà assoluta, senza compromessi. Un film muscolare, come l’America che si preparava agli strepitosi anni 90, Bill Clinton in sella, la sensualità del potere e viceversa. L’alba della rivoluzione tecnologica, il Grande Sogno a tutti i costi, anche quello meno lecito e dunque il botto d’inizio anno zero, il crepuscolo. Eccetera.

Ecco: Kathryn, col suo stile di ripresa sincopato, senza respiro, aveva capito con anticipo che aria tirasse. Poi, nel '95 è arrivato Strange Days, ambientato in una Los Angeles sull’orlo della guerra civile a poche ore dalla fine del millennio, ed è stata la prova: Kathryn riesce a leggere nel futuro. Quando dunque si è sparsa la voce che la Bigelow stava facendo un film sulla guerra in Iraq, qualcuno al Pentagono forse avrebbe dovuto interpellarla tanto per farsi un’idea di come le cose potrebbero evolvere nei prossimi tempi, da quelle parti. Il film è uscito in Europa (in Italia è nelle sale in questi giorni) ma non ancora negli Stati Uniti, dove probabilmente non troverà un’audience disposta a spellarsi le mani per gli applausi.

Fare un film su una guerra in corso non è facile. Col Vietnam si sono dovuti aspettare quattro anni oltre la fine. Kathryn qualche rischio è abituata a prenderselo. «Credo che serva molta sensibilità. Molte famiglie hanno i figli ancora laggiù, sono emotivamente coinvolte. Non ho mai pensato a un film che desse dei giudizi, a qualcosa di politico, anche se inevitabilmente lo diventa. Volevo solo entrare dentro a quel conflitto. Mostrarne un aspetto secondo me rilevante. Aprire una finestra che aiutasse a capire la futilità della guerra. Anche agli occhi di coloro che l’hanno sostenuta». Prima di incontrarla ci ho parlato al telefono, immaginando la piccola foto in bianco e nero che mi ha fatto invaghire.

Kathryn è imponente, di bellezza gelida che però non intimorisce. Può sembrare altera, ma è sufficiente farla parlare del suo lavoro perché si trasformi in un’adolescente entusiasta. Ha 57 anni, ma visto il suo aspetto sembra un presa in giro («È l’aria della California», scherza). È figlia del proprietario di un negozio di vernici e di una bibliotecaria. Sognava di fare la pittrice e per un po’ è andata così. Ha pure vinto una borsa di studio del Whitney Museum. È stata amica di Robert Rauschemberg e Susan Sontag, ma con la cinepresa è un’altra cosa. Un talento irrequieto. Il suo film d’esordio, uno short di 20 minuti (The Set-Up) diretto a 27 anni, era una lucida analisi del tema della violenza. Una fascinazione che le è rimasta incollata addosso fino, appunto, a The Hurt Locker.

Cominciamo da qui: perché questa attrazione fatale?

Sostanzialmente perché credo che siamo circondati dalla violenza. Quando ho cominciato c’era di mezzo anche un aspetto personale: era come se a una donna fosse proibito affrontare certi generi. Una sfida nella sfida. Ma vorrei dire che più che dalla violenza in sé, sono attratta dai profili psicologici che le stanno dietro.

Fare un film sull’Iraq mentre nel paese c’è la guerra: che scommessa è?

Una sfida che ti impone di rispettare l’autenticità. L’aspetto più grave di questa vicenda è che da anni negli Usa non riusciamo ad avere notizie affidabili su come siano condotte le operazioni di guerra, sui progressi, sulle perdite. È tutto severamente filtrato, non credibile. Mettersi in gioco per riprodurre qualcosa di assolutamente veritiero presenta qualche rischio. Ma il lavoro di Michael Boal, embedded nell’esercito americano, assieme a una grande opera di ricerca, ci ha messo sulla strada giusta. Abbiamo girato in Giordania, a pochi chilometri dal confine dove la guerra c’era sul serio. Ci siamo sottoposti a condizioni estreme, abbiamo utilizzato quasi tutte comparse che erano iracheni profughi del conflitto. Li abbiamo utilizzati come ulteriori fonti di accuratezza. Di fronte ai loro occhi non potevo mentire, non ci era concessa nessuna drammatizzazione. Il risultato non è discutibile sul piano dell’autenticità. Può piacere o meno, ma quello è ciò che succede in Iraq se fai parte di una pattuglia di soldati che ogni giorno deve disinnescare decine di ordigni nascosti ovunque.

All’inizio c’è una scritta: la guerra è droga.

È un po’ il senso di questo lavoro: una piccola storia dentro a una storia più grande che ha un significato che va oltre l’Iraq. Viviamo in un mondo di pusher e di tossicodipendenti. Ti vendono guerra e ne diventi dipendente. Il tizio che rischia la pelle per neutralizzare bombe che lo ridurrebbero a pezzi non può fare altro. Prova un sottile godimento a cui non può rinunciare. Un piacere atroce e futile. Com’è l’eroina. Esiste un dazio da pagare per tutti coloro che fanno professioni estreme, costretti a uno stress insopportabile per i più. È questo che succede ai soldati.

Le sue pellicole diventano culto ma spesso, però, non sfondano al botteghino. Si è mai chiesta il perché?

Se avessi mai pensato ai miei film, immaginando a quanto profitto potevano produrre, forse avrei dovuto cambiare mestiere. Riguardo al successo di fan che ancora riescono ad appassionarsi per film come Point Break e Strange Days, non può farmi che piacere. Ma non è il filmaker che può rispondere alle ragioni che regolano la vita dei suoi film. Personalmente cerco di non pensarci. Mi piace guardare avanti. Anche perché una volta uscito nelle sale, il film non mi appartiene più. È della gente.

Sui suoi set, lei non arruola quasi mai grandi star. Per esempio in The Hurt Locker i volti più celebri (Ralph Fiennes e Guy Pierce) escono di scena dopo pochi minuti. Cos’è, una forma di snobismo?

Be’, innanzitutto faccio film indipendenti con budget sempre piuttosto misurati. Mi spiego? Ricordo un’intervista anni fa, in cui mi accusarono di aver fatto morire Samuel L. Jackson dopo pochi istanti. Ma io penso che offrire un volto troppo noto al tuo pubblico significa creare terreno fertile per un possibile pregiudizio. Usare volti freschi, sconosciuti, di attori con talento, significa che quegli attori porteranno di sicuro qualcosa di più al tuo progetto, una sorta di valore aggiunto. Credo che The Hurt Locker sia riuscito in questo. Prima di iniziare a girare ho visto le facce di un migliaio di soldati impegnati in Iraq. So di cosa sto parlando.

I film che parlavano di Iraq, finora usciti in America, sono stati ignorati o quasi. Preoccupata?

No, perché si trattava di opere che si occupavano delle conseguenze in patria della guerra, come poteva essere Nella valle di Elah. Questa invece è la guerra vera e propria. E se penso a film come Black Hawk Down, sono fiduciosa. Quella somala non fu una pagina particolarmente decorosa per gli americani, eppure il film andò bene.

Tra pochi giorni si deciderà il prossimo presidente americano. Crede che i film possano in qualche modo aiutare a formarsi un’opinione?

È una speranza. Non so quanto fondata, però è una speranza. Specie in questo particolare momento storico. Abbiamo bisogno di un cambio radicale, vedere questo film e rendersi conto di quanto la guerra sia stata un errore, potrebbe aprire gli occhi alle persone. E dunque votare per il candidato democratico. Il mio sogno è che questo film sia visto dalla famiglia intera. Perché se ne parli, ci si confronti. Nel nostro paese non si discute quasi più. E questo non è un bel segnale.