La insegnano ai manager, l’empatia. E ai bambini dell’asilo, per evitare che si trasformino in bulli fuori controllo. Nell’America delle scuole violente e delle umiliazioni pubbliche via Twitter, c’è bisogno di corsi annuali, per imparare a entrare in sintonia con gli altri. Ma l’empatia non è una sensazione piuttosto naturale, e familiare, che si scatena (che si è scatenata) in un giorno preciso della nostra infanzia? Quando scopriamo lampi di malinconia inspiegabile negli occhi di nostra madre e per la prima volta, senza sapere come o perché, ne siamo totalmente invasi? Meglio, con le parole di Aimee Bender, scrittrice surreale e provocatoria, è il giorno in cui assaggiamo la torta che mamma ha preparato per il nostro nono compleanno e, sorpresa, non sa di limone e cacao. Sa di vuoto. Di insicurezza e solitudine. Di tuttele emozioni che lei ci tiene nascoste. La immagina così, l’educazione sentimentale del terzo millennio, la Bender nel suo romanzo L’inconfondibile tristezza della torta al limone (in uscita il 12 ottobre). E noi abbiamo provato a capirne, e sentire, molto di più. Partendo dalla domanda più a tema.

Quali sono gli ingredienti che ha usato?
La curiosità, l’interesse per le varie forme di sensibilità, e un po’ di mal di cuore.

Ma l’empatia allora si può davvero insegnare?
Credo di sì, anche se c’è chi è più naturalmente predisposto. La lettura in sé è un atto di grande empatia, che ci catapulta nella vita e nelle sensazioni di qualcun altro. Recentemente uno studente mi ha detto che partecipa al mio corso perché lì sente crescere la sua sensibilità. Un motivo eccellente per seguire una lezione.

E quando i sentimenti diventano troppo ingombranti, come se ne esce? La sua protagonista Rose, che “sente” le emozioni delle persone nei piatti che cucinano, si rifugia nei biscotti neutri delle macchinette. E lei?
Da ragazza i miei biscotti neutri erano le finestre. Mi isolavo, restavo lì a guardare fuori, totalmente assente. E inventavo storie, il che mi è servito poi per il mio lavoro. Ma ho dovuto smettere, perché perdevo troppo tempo, e troppe lezioni al college.

È così che ha scoperto i suoi poteri magici?
Sì, in un certo senso scrivere è stata una risorsa, perché illuminava angoli bui dentro di me.

Ci dice un’abilità tipica dei bambini che vorrebbe riavere indietro, e una di cui invece vorrebbe disfarsi?
Vorrei la totale concentrazione di cui sono capaci i piccoli quando giocano. E preferirei liberarmi di quel senso di impotenza che ti prende quando non capisci cosa ti sta succedendo, e non sai come parlarne.

Cosa cucinerebbe per dichiarare «ti amo» e cosa per dire addio?
Una deliziosa, fragrante zuppa, un’insalata colorata, arrosto e gelato artigianale, per dire «ti amo». Per farla finita, qualcosa in cui affogare il dispiacere: una pasta ben condita. È quello che mangio quando sono triste. In realtà la mangio anche quando sono felice, quindi forse non vale...

E il piatto più condito di ricordi?
Il brodo di pollo con le polpette di matzo: lo preparava mia nonna. Una donna che ha portato vestiti coi lustrini e tacchi alti fino ai 90 anni, contro il parere del medico. La chiamavamo Ardie, non nonna, perché per mia sorella era più facile da pronunciare. Aveva un carattere di ferro e amava le fiabe: gliene ho lette parecchie. Per il resto, era una relazione non verbale. Stavamo sedute in silenzio, a farci le coccole e a mangiare cioccolatini.

Anche come figlia è stata così empatica?
Insomma... Posso essere molto, troppo riservata. Infatti da adolescente e poi da giovane adulta, non ho mai raccontato molto di me ai miei genitori. E pensare che sono figlia di uno psicoanalista. Semplicemente, mi era più facile sbrigare da sola le mie faccende. Abbiamo avuto molte conversazioni sul loro bisogno di sapere di più. Ma è un equilibrio delicato: tuttora, non mi va di raccontargli proprio tutto.

Ha spesso la sensazione di provare emozioni che gli altri non comprendono?
Sì. Un giorno per esempio mi sono arrampicata su un albero di eucalipto ricoperto, dalle radici alle foglie, di farfalle arancioni. Stavano lì, muovendo delicatamente le ali. Io ero in estasi, fermavo tutti i passanti perché le vedessero. Loro mostravano un pizzico di interesse, ma nessun entusiasmo.

Chi invece gioisce, e soffre, in sincrono con lei?
Ho la fortuna di conoscere persone perspicaci e sensibili. La mia amica Miranda, cui dedico il libro, ha il dono di andare dritta al cuore delle cose. Da lei mi sento profondamente compresa. Anche da mia sorella e dal mio amore. E dalla mia gatta Nelly.

Empatica?
Altroché! Ogni tanto si comporta da vecchia signora irritabile, quando sono agitata lei miagola più forte, stizzita. Una volta le ho chiesto per favore di cambiare tono. Non ha funzionato.

E con le nuove persone come entra in sintonia? È portata a comprenderle o a sentirle?
A sentirle, decisamente. Una specie di “risposta intuitiva”: è il mio modo di prendere le misure.

Le capita di essere ingannata dalle prime impressioni?
Continuamente. Malcolm Gladwell ha scritto un libro, Blink, sul fidarsi o meno delle intuizioni. Io lo faccio, ma non sempre mi riesce bene. Per dire, con la maggior parte dei miei amici più cari non è scattato subito il click. Solo con Krista, che ho conosciuto a una lezione di chimica: c’è stata un’alchimia immediata. Per tutti gli altri, mi ci è voluto molto più di una prima impressione.

Le succede anche di fronte a un’opera d’arte?
Poco tempo fa sono andata a una mostra di Edward Hopper e mi sono imposta di esplicitare i sentimenti che provenivano dai quadri e mi attraversavano: stabilità, precisione, chiarezza, buon senso. E l’essere soli, senza il senso di solitudine.

Parlando di buoni sensi, quale usa di più?
Sono tutti importanti. Amo le storie raccolte dal neurologo Oliver Sacks, su come riusciamo a compensare un senso mancante aguzzando gli altri. Come il pittore che ha perso il senso del colore per un danno al cervello, ed è caduto in depressione. Guardare una banana lo faceva soffrire, perché non la vedeva più gialla, bensì in slavate tonalità di grigio. Ma col passare del tempo è entrato talmente in sintonia con questi grigi, che il suo cervello ha fatto la magia, e lui ha cominciato a percepire più intervalli di colore dei normovedenti.

Ecco, la vista: l’unico senso che viene stimolato in questo mondo ipertecnologico. Che effetto ha sui sentimenti?
Loro sono sempre lì. Reagiamo in modo personale a quello che vediamo in tv o su internet, no? I nostri sentimenti giocheranno sempre il ruolo principale in quello che facciamo.

E il sesso? È un altro modo per “vedere” più chiaramente?
Sì, amplifica le sensazioni. Nell’intimità con una persona, saltano fuori sia il bello sia le paure.

Torniamo al binomio cibo-emozioni. Cosa troverebbe in un piatto cucinato da Barack Obama?
Adesso? Stiamo uscendo da un periodo molto difficile. Quindi preoccupazione, frustrazione, fermezza d’acciaio e un po’ di confusione.

E in uno di Michele Bachmann (la candidata repubblicana per le presidenziali Usa del 2012)?
Grandeur, enorme fiducia in sé e una strana, sconvolgente, allegria.

Qual è la sua ricetta per stare al mondo?
Tutti abbiamo bisogno di aiuto per elaborare le esperienze. Siamo sistemi molto complessi. Anche quando sembriamo sereni, c’è sempre qualcosa che ci ribolle dentro. Io credo nella psicoanalisi e nella meditazione. E nelle chiacchierate con gli amici. Qualunque cosa mi permetta di rivolgere lo sguardo all’interno.

E se quello che vede non le piace?
Capita spesso. È umano. Doloroso, ma utile.

Qual è il sentimento più difficile da mandar giù?
Si può digerire tutto. Tranne i sentimenti che neghiamo di provare.