Luca Zingaretti

Il ruolo del padre gli calza a pennello. Nella vita (a luglio è nata sua figlia Emma) e sul grande schermo, dove incarna il tormentato Antonio Sansone, nella Napoli vintage di La kryptonite nella borsa (in uscita il 4 novembre). Poi sarà nella “delegazione” italiana di Asterix e i bretoni.

Che tipo di bambino è stato?
Uno che diceva: «Da grande voglio fare Dio!». Visto che Dio può fare tutto perché non approfittarne?

Scriva una lettera a se stesso ragazzino.
Gli direi di coltivare la sua curiosità, perché la vita è meravigliosa in tutti i suoi aspetti. Anche i meno piacevoli.

Dove lo porterebbe?
Al museo. Un amico ci portava spesso la figlia piccola e mi raccontò che un museo è pieno di cose interessanti anche per un bambino, basta sapergliele spiegare e poi portarlo a giocare.

Come lo fa felice?
Regalandogli la sensazione di pace e serenità assoluta che si prova tra le braccia della propria madre.

Valeria Golino

Voleva fare il cardiochirurgo. E, determinata com’è, avrebbe potuto riuscirci. Poi però è arrivato il cinema con ruoli affascinanti - come questo dell’inquieta Rosaria Sansone. E la sfida di dirigere un film (tratto dal romanzo Vi perdono di Mauro Covacich).

Com’era da bambina?
Malinconica e pestifera. Mi incuriosivano gli animali: cani, gatti, cavalli, i grandi felini. E anche i bambini maschi!

Scriva una lettera a quella ragazzina.
Le direi che va tutto bene, le racconterei le fiabe dei fratelli Grimm, la proteggerei dal senso di lontananza, di perdita.

Dove la porterebbe?
A Edenlandia, all’acquario, alle Grotte di Castellana, tutto nello stesso giorno. E, infine, al mare.

Un odore da regalarle?
Quello del collo di mia nonna, che sapeva di talco e acqua di rose e ti faceva sentire protetta

Libero De Rienzo

L’attore lanciato da Fortapàsc è lo scatenato “zio Salvatore”, in esplorazione della Swingin' Napoli anni 70 - armato di pantalone a zampa d’elefante e una “faccia tosta” che lo accompagna fin dall’infanzia.

Cosa la incuriosiva da bambino?
Vedere dal buco della serratura mio padre e sua moglie accoppiarsi.

Immagini di trascorrere una giornata con se stesso bambino.
Sarebbe noiosa, da piccolo ero crudele e indisponente. Lo porterei in riva al mare per poi andarmene.

Chi gli presenterebbe?
Mia moglie, ovviamente.

Gli consigli una canzone.
Tutto tranne “Maicol Gecson” e Baglioni Claudio, per preservarlo da un futuro da serial killer.

Una dritta da dargli?
Credo sia infruttifero pensare di indicare il futuro a chi se lo sta costruendo con i propri occhi e il proprio cuore.

Cristiana Capotondi

Lo sguardo trasparente dell’attrice romana nasconde un’ardente curiosità, la stessa che ha trasmesso al suo personaggio, zia Titina, spirito ribelle e femminista. Dopo l’esperienza da giurata alla Mostra di Venezia (sezione Controcampo) l’aspetta il set di un road movie americano con Orlando Bloom e Nick Nolte.

Cosa la incuriosiva da piccola?
Il funzionamento delle cose: lampadine, barche, treni. E poi creare giochi fai da te.

Cosa scriverebbe alla se stessa bambina?
Che è lei la cosa più importante che ha. Le trasmetterei l’idea della donna che può diventare e le direi di non avere paura, di crescere ed essere felice.

Immagini di trascorrere una giornata con lei.
La porterei a pattinare, a fare il bagno a La Maddalena, a mangiare due gelati e poi a dormire presto.

Cosa le farebbe riscoprire?
Il formaggio: perché è buonissimo ma da bambina non mi piaceva.

Luigi Catani

Impossibile non restare ipnotizzati da un paio di vivacissimi occhi verde mare. Anche quando sono nascosti dalla pesante montatura di Peppino Dansone. Nato nel 2000, ora alle prese con un nuovo film (Non parto non resto di Elisa Fuksas), Luigi immagina il futuro.

Come ti vedi da adulto?
Somiglierò a mio padre, spero di diventare alto. E avrò un lavoro che mi farà viaggiare tanto.

Come sarà il mondo fra trent’anni?
Migliore, senza inquinamento. Le auto voleranno e viaggeremo nello spazio. E io farò il direttore della fotografia per testimoniare tutto ciò che accade!

Metti le tue cose più care in una scatola da riaprire a cinquant’anni.
Foto della mia famiglia, dei miei amici e del mio bassotto, Rocco. La prima maglietta del Napoli, piccola piccola. E, ovviamente, La kryptonite nella borsa con la dedica di Ivan.

Per un giorno puoi andare a spasso con il te stesso trentenne...
Mi farei accompagnare a scuola. Quest’anno inizio le medie e ho un po’ paura. E poi guarderei con lui il mio film!

Ivan Cotroneo

Napoli, esterno giorno. Il caldo avvolgente di un infinito pomeriggio estivo ti cinge in un abbraccio serrato. Ripercorri le strade semideserte e assolate, dopo che per qualche tempo sei stato lontano, e vecchi ricordi, un’onda anomala di allegre allucinazioni, ti trascinano in una dimensione atemporale. Tra (troppe) carte sporche e sfogliatelle assaporate con lentezza al tavolino di un bar, frammenti di un passato remoto si scompongono e ricompongono in sequenze casuali. Ti sfidano, con incontri (im)possibili cui non vuoi e non puoi sottrarti. Perché un paio di occhi innocenti e miopi - i tuoi - ti fissano implorando risposte. Sei improvvisamente davanti al te stesso bambino e, intrigato, ti abbandoni al miraggio. Come spiegargli il tempo che vi separa?

Ivan Cotroneo, scrittore, sceneggiatore tra i migliori in Italia (Mine vaganti, Io sono l’amore, Prima linea, e serie tv come Tutti pazzi per amore) sta al gioco. Lui è figlio di quella città. La racconta meravigliosamente, nell’esilarante atmosfera Seventies di La kryptonite nella borsa, il film che ha tratto dal suo romanzo (Bompiani) e che segna il suo esordio da regista.

Seguendo il gioco fatto con gli attori del cast, lo abbiamo invitato a tornare a Napoli (oggi vive a Roma), prendere per mano il se stesso piccolo e occhialuto di cinque anni - praticamente un sosia del Peppino Sansone protagonista della storia -, e perdersi nelle nebbie della fantasia.

Provi a scrivere una lettera al se stesso bambino.
In realtà è come se l’avessi già fatto scrivendo La kryptonite nella borsa. In particolare nel discorso che Superman (l’angelo custode immaginario) fa a Peppino alla fine del libro: «È che ora sono nella mia vera dimensione, mi accetto e mi piaccio. Assomiglio di più all’idea che ho di me». Ecco, gli consegnerei il libro. Il potersi riconoscere in tante cose lo aiuterebbe a sentirsi meno solo. E gli augurerei di ridere molto, guardando sempre il lato buffo delle cose.

Com’era da bambino?
Molto curioso. Come il mio protagonista, ho un’ossessione per gli occhiali. Sono molto miope, mi mancano nove diottrie e vivo di lenti a contatto. Portavo occhiali pesantissimi con quelle montature di celluloide tipiche degli anni 70 e li detestavo. Per una sorta di compensazione osservavo moltissimo e avevo memoria di tutto. Riuscivo a infilarmi ovunque, posti in cui non dovevo stare, stanze in cui non dovevo entrare, ascoltavo discorsi che non dovevo sentire. Anche oggi sto spesso in un angolo a osservare gli altri. Ciò che scrivo è frutto di questa capacità.

Un’immagine della sua infanzia?
Una processione notturna dell’Immacolata al Vomero, un quartiere di Napoli. Ero molto piccolo. Mio padre e mia madre per tutto il tempo non hanno fatto altro che litigare sull’opportunità della mia presenza. Ho questo ricordo: loro che bisticciano, le candele accese, tanta gente in strada. Un’immagine che mi riporta a casa, alla capacità, per me anche abbastanza comica, che hanno sempre avuto i miei di amarsi litigando in continuazione. La mia idea di casa non è quella di un luogo in cui tutto funziona perfettamente, ma in cui ci si vuol bene e si sta insieme nonostante non si sia d’accordo su niente.

Come pensava che sarebbe stata la vita da adulto?
Non mi vedevo da grande, ma non per scelta come Peter Pan, bensì perché al solo pensiero di entrare in quel mondo indecifrabile provavo una certa sofferenza. L’universo degli adulti mi risultava misterioso e irraggiungibile. Non riuscivo a comprenderlo. Come tutti i bambini curiosi che ascoltano discorsi inadatti alla loro età, non trovavo spiegazioni a una serie di fenomeni: passioni, litigi, attrazioni sessuali...

Ivan bambino le chiede di trascorrere una giornata insieme. Dove lo porterebbe?
Poveraccio, più che portarlo in giro lo sottoporrei a un interrogatorio per vedere se tutto ciò che ricordo corrisponde a quello che lui pensa; se tutto ciò che ho scritto, nel libro e nel film, sul mondo dei bambini coincide effettivamente con quello che passa nella sua testa. Da sempre mi affascina capire quanto di ciò che ricordo è vero e quanto ho inventato.

Quanto è autobiografico La kryptonite nella borsa?
Il romanzo è ambientato nel 1973. All’epoca avevo cinque anni. Il mio protagonista, invece, ne ha dieci e descrive una Napoli che ho conosciuto, il quartiere dove abitavo. C’è un mio modo di guardare la città, lo sguardo che avevo da bambino, ma il tratto autobiografico si ferma qui.

Come farebbe felice quel piccolo se stesso?
Lo porto al cinema. Da bambino ero uno spettatore onnivoro, costringevo i miei genitori a portarmi al cinema in continuazione. So che se per l’ennesima volta lo portassi a vedere Gli aristogatti, quel bimbo sarebbe molto felice. Ma gli potrebbe piacere anche The Tree of Life di Malick.

Se dovesse regalargli un’esperienza?
Andremmo al mare, al largo dove non si tocca. Perché lui nuotava ma aveva paura dell’acqua, degli spazi molto ampi. Solo da adulto l’allontanarsi dalla riva, il sentirsi perso e le lunghe nuotate sono diventate parte importante della vita. Probabilmente perché ho smesso di temere una serie di cose, non solo la distanza dalla terraferma.

Chi gli presenterebbe?
Nessuno di famoso. Piuttosto una persona che svolge il suo lavoro in maniera silenziosa anche quando gli altri non lo comprendono. Un bravo insegnante di oggi, di quelli entusiasti, per mostrargli quanto è importante nella vita avere una passione, anche quando tutti ti sono contro. Da bambino guardi agli insegnanti come a personaggi strani, lontani. Ne hai paura, non li capisci. Da grande, poi, comprendi che quelli bravi ti hanno cambiato la vita, ti hanno insegnato ad aprire gli occhi sull’ignoto. È un merito poco riconosciuto, soprattutto in Italia, in un momento politico tremendo per loro, tra stipendi bassi, tagli e un non riconoscimento del loro lavoro.

Se dovesse tentarlo con la musica?
Gli consiglierei Antony and the Johnsons. Canzoni non direttamente allegre, ma, nella mia testa, di resistenza e di cambiamento. Canzoni non deprimenti ma commoventi, che vogliono dire «questo mondo può accogliere chiunque». E comunque non avrei paura di buttarlo giù, perché tanto il me stesso bambino non era particolarmente allegro!

Una cosa da cui preservarlo?
Dalla perdita delle persone care, dal lutto, dal dolore per la mancanza di chi amava e non c’è più.

Come gli descriverebbe la Napoli di oggi?
Come una città in una situazione drammatica dalla quale spero si stia risollevando. Mesi fa avrei detto lassista, sempre disposta a lasciar correre. Con il risultato inaspettato delle elezioni comunali, però, ha dimostrato necessità e voglia di cambiare. È questo il dato fondamentale.

Un supereroe può salvare la città. Come?
Con un superpotere ignoto che non mi risulta abbia nessuno dei supereroi che conosco: la possibilità di dividere il suo potere, qualunque esso sia, con gli altri. In questo momento Napoli, come tutto il resto dell’Italia, ha bisogno di uno sforzo collettivo, quindi un supereroe può essere tale solo se ha la capacità di condividere. Mi pare proprio bello questo “superpotere della divisione”.

A proposito di famiglia, c’è nella sua vita un parente “originale” come quelli di Peppino?
È una bella gara. Sono stato fortunatissimo. Ho una famiglia piena di parenti originali e anticonvenzionali. Tutte personalità forti, bizzarre, di quelle da cui da un momento all’altro ci si aspetta un momento di follia, di creatività. La loro presenza è il fattore principale del mio amore per l’ironia. Crescere in una famiglia numerosa, in cui tutti si prendevano in giro e non c’era alcun rispetto della privacy altrui, mi ha abituato a guardarmi come dall’esterno. Se ero triste o facevo qualche capriccio c’era sempre qualcuno che mi osservava dalla porta, ovviamente aperta, e mi prendeva in giro. Anche adesso nei momenti di sofferenza, è come se mi vedessi con gli occhi di mio padre, mia madre, dei miei zii e cugini, e mi dicessi: «Ma che stai facendo?», sentendomi subito un po’ ridicolo. E riesco a superare i momenti bui.

In cosa, oggi, vede ancora il bambino che era?
Nella capacità che ancora ho di sorprendermi. Sono un uomo cresciuto, ho 43 anni eppure so ancora provare meraviglia e stupore, quando visito una città per la prima volta, quando leggo un libro da cui mi aspettavo poco e invece mi sorprende, quando vedo un film che avevo sottovalutato, quando ascolto i racconti degli altri.

Se dovesse regalargli uno scrigno con cinque oggetti da riportare nel passato?
Un libro che amo, forse L’Isola di Arturo di Elsa Morante. Anzi no, perché il me stesso bambino ce lo aveva già. Per cui direi Il Cigno di Guðbergur Bergsson. Poi un computer superaccessoriato e collegato a internet per sorprenderlo con quello che accadrà nei prossimi trent’anni. Una foto attuale della sua famiglia, per fargli vedere che le persone cui vuole bene sono ancora lì e chi non c’è più è come se ci fosse ancora. Un pacchettino con dentro tutte le carte d’imbarco degli aerei che ho preso per fargli capire che sì, da grande viaggerà tanto, come desiderava. E, infine, una lettera d’amore, che gli ha scritto una persona che ama, per fargli sapere che sarà amato.