«Le donne hanno in mano il destino del mondo». Purché ci sia acqua. Solo allora c’è qualcosa che lui può associare alla parola “casa”. Tanta, quanto un oceano può contenerne. Oppure quella che basta a riempire una piscina che regali l’illusione di nuotare al largo. «Non riesco a viverne lontano », confida Emanuele Crialese.

Stiamo parlando già da un po’ (a Roma, in un giardino vicino a una fontana, guarda caso), e quindi il momento è benigno per dischiudere uno spiraglio sulla sua vita privata: «Non so se faccio bene a dirglielo... Vivo in una casa prefabbricata lontana dal centro, all’interno di un metafisico Sporting Club. Sono villette tutte uguali intorno a una grande vasca: la mattina esco di casa in accappatoio e nuoto. Poi faccio colazione, mi metto a scrivere e quando inciampo in un’impasse, mi rimetto l’accappatoio e mi rituffo. Seguo questo ritmo meditazione-nuotata-rientro, e magari faccio due chiacchiere con quella strana umanità rappresentata dai miei vicini di casa: fiorai napoletani, proprietari di ristoranti cinesi... Persone che non incontrerei mai se fossi il tipico regista che vive nel centro storico».

L’acqua. Fa ripensare al finale di Respiro con la macchina da presa messa sul fondale del Mediterraneo, rivolta in alto verso tutti i protagonisti del film che galleggiano agitando i piedi e sembrano prendere il volo perché in tutto lo schermo non c’è un angolino di terra e il mare si capovolge nel cielo. Oppure alla scena con i personaggi di Nuovomondo immersi in un fiume di latte e miele, l’immagine che stava a significare l’America per gli emigranti italiani del primo ’900. Perché nel suo modo di fare film solo lui riesce a unire surrealismo e denuncia sociale, elementi fantastici e critica politica, meravigliose invenzioni visive e storie di forza crudele. Come in Terraferma, il nuovo film che presenta alla Mostra di Venezia. Tutto girato a Linosa. In mezzo all’acqua.

Dopo Lampedusa (Respiro) ed Ellis Island (Nuovomondo) perché, ancora, una storia che ha come fondale un’isola?
Perché l’isola è la concretizzazione di una condizione esistenziale. Per lavorare, ho bisogno di “isolarmi”, nel senso di rinchiudermi in me stesso. Ma anche di partire alla volta di un altrove a me sconosciuto, dove ci siano comunità unite da sempre e io venga percepito come uno straniero. Mi piace l’idea di essere uno straniero, è una dimensione costitutiva di ogni essere umano, di ogni luogo, di ogni tempo.

Perché ne ha così bisogno?
Mi aiuta a stimolare delle antenne che non credevo di avere. Pensi a un gatto: se lo porta in una casa nuova, gira, scruta, nota degli oggetti che in quella vecchia dava per scontati. Ecco: io sono quel gatto.

Ancora una volta, un film in cui gli attori recitano in dialetto stretto...
Per me il dialetto costruisce mondi. È più di una lingua, è una visione. Le faccio un esempio: uno dei miei attori, per insultarmi, mi chiama “testa di pane duro”. Non è più bello di una qualsiasi parolaccia in italiano? Io lo vedo: il pane raffermo, la crosta cementificata... Come difendo l’uso dell’italiano nella forma scritta, così credo che in un film far parlare un contadino senza inflessioni dialettali, non solo non funziona, ma certifica la perdita di un grande patrimonio culturale.

Sull’isola di Terraferma vive Giulietta (Donatella Finocchiaro), una giovane vedova che ha perso il marito in mare. Vorrebbe per suo figlio Filippo (Filippo Pucillo) un futuro diverso sia da quello di nonno Ernesto (Mimmo Cuticchio) che non vuole rottamare il peschereccio, sia da quello dello zio Nino (Giuseppe Fiorello) che ha smesso di catturare pesci per catturare turiste. Giulietta sente che per vivere, lei e suo figlio dovranno trovare il coraggio di andare via. Ma un giorno il mare sospinge nelle loro vite Sara (Timnit T.) e suo figlio. Ognuna delle due donne cambierà la vita dell’altra. Sara non è solo un personaggio. Purtroppo. «Nell’agosto del 2009 ero a Lampedusa, per vedere cosa succedeva a quelli che provengono da “altrove”, gli immigranti. Con lo scellerato patto tra il nostro governo e Gheddafi, che istituzionalizzava la pratica del respingimento, per tre settimane non è arrivato nessuno. Il giorno in cui ho deciso di tornare, a Fiumicino ho comprato il giornale: leggo che poche ore prima era arrivato a Lampedusa un barcone con 80 eritrei. 75 erano morti di fame e sete. Sotto i cadaveri, tra i superstiti, c’era una donna. L’avevano fotografata. Quando ho osservato il suo sguardo, è diventata la mia ossessione. Non sono neanche andato a casa. Ho ripreso subito l’aereo per Lampedusa per cercarla. L’ho trovata, abbiamo parlato. Solo dopo mi sono messo a scrivere il film, cercando quasi di dimenticarmi il nostro incontro. Perché in Terraferma racconto una realtà che abbiamo davanti quotidianamente ma senza intenti documentaristici, piuttosto la trasformo in una specie di favola, fuori dal tempo e dai luoghi reali, tanto che Linosa non è neanche citata. Infatti, quando dovevo fare il cast del film, siccome uno dei personaggi era ispirato a lei, le ho detto: “Non è la tua storia. Non voglio parlare della tua tragedia, non sono uno che fa dei film con un messaggio. Ti va di farti dirigere da me?” Ha detto di sì. Timnit è stata eccezionale, dà un senso al film. Mi meraviglio della sua dignità, della sua regalità, della sua bravura nel reinterpretare la storia spaventosa che le è successa».

Momenti difficili durante la lavorazione?
Certo. Quando, con i riflettori addosso, ha praticamente dovuto rivivere la sua vicenda, io lì l’ho vista perduta. Per fortuna, la troupe e gli attori - abbiamo vissuto tutti insieme per tre mesi - le sono stati molto vicini. Donatella la guardava come se fosse una regina, Timnit osservava Donatella con l’ammirazione devota che si riserva alle dee. Si sono amate molto. Ma, per esempio, quando ho girato la scena più difficile, quella dell’approdo sull’isola, l’ho fatta truccare - anzi, struccare - come se fosse stata davvero su quel maledetto barcone. E quindi cazziavo chi non le aveva abbastanza “rovinato” le mani. In realtà era lei a ostinarsi: non voleva farsele sciupare. Quelle di oggi sono le mani che si è conquistata a un prezzo terribilmente alto. Ho girato senza insistere. Se lo meritava.

E lei, che cosa si è meritato?
Quando giri un film, si aprono sempre degli stati di coscienza e si iniziano a intravedere delle cose che non credevi di sapere o di saper fare: questa volta, la possibilità di capirsi senza parlare. Il cast, la troupe, gli abitanti di Linosa, tutti insieme: alla fine bastava un semplice sguardo e ci eravamo detti tutto, si parlava solo sul set. Se il paradiso esiste, è fatto così.

Valeria Golino-Grazia in Respiro, Charlotte Gainsbourg-Lucy in Nuovomondo, ora Giulietta e Sara in Terraferma… Le donne nei suoi film sono potenti, totemiche, innescano storie, imprimono svolte. Perché i maschi no?
Le donne mi attirano di più. Sono più misteriose. E poi, a costo di sembrarle banale, danno la vita, hanno una psicologia complessa e più forte dell’uomo, anche se più vulnerabile. Purtroppo hanno un “ruolaccio”: il destino della conservazione della specie è nelle loro mani. È la donna che trasmette la morale e quando la morale femminile è debole, è debole tutta la società. Se la donna è strumentalizzata, manipolata da un sistema maschile che l’attacca, la smembra e la ritraduce in oggetto a uso degli uomini, allora cadiamo in una miseria spirituale nerissima.

Allude per caso al momento storico in cui ci troviamo?
Io vorrei fare una ricerca sulla gestione del potere, perché qualcuno sta facendo passare il pensiero che si può usare- a partire dal proprio corpo - per potersi affermare. In realtà questa visione è il frutto di una classe politica che richiede sempre di più e, nello stesso tempo, concede privilegi a donne che non hanno la lucidità di capire che quel tipo di potere non corrisponde all’emancipazione femminile. A questo bisogna aggiungere un mondo del lavoro sempre più competitivo, il desiderio di maternità, le pressioni quotidiane a cui sono sottoposte... La figura eroica, il mito, la monumentalità emotiva non può avere che un sesso: femmina.

C’è ancora bisogno di miti?
Senza, saremmo tutti azzerati. È l’unico modo per ricordarci la nostra natura e le sue leggi, la nostra storia, l’assoluta contemporaneità.

Qual è il suo preferito?
Ulisse. La conoscenza per me coincide con il movimento, sottintende l’idea di percorso, di evoluzione. A nessuno può essere negato il diritto di poter cercare altrove.

Parlare di “leggi di natura” ha ancora senso, oggi?
Dimentichiamo di essere dominati da regole che ci sorpassano e non riusciamo a controllare. Ci educano a pensare che non sia così, e da lì sgorgano infelicità, disagi, depressioni. Forse sarebbe il momento di pensare che, se le cose non vanno come abbiamo creduto, forse non è soltanto colpa nostra...

Come la mettiamo con la responsabilità di partecipare all’Oscar come miglior film straniero - con Nuovomondo - al suo secondo film importante?
Devo proprio dirlo? Sono caduto in depressione per un anno. Mi sentivo soffocare.

Una depressione dovuta al successo?!
Sono talmente insicuro che all’inizio ho pensato “è stato un caso, si saranno sbagliati”, E poi: “ma cosa farò dopo?”, “sarò all’altezza”? Non mi misuro con l’essere all’altezza, ma soltanto con la realizzazione del mio lavoro, che considero qualcosa di sacrale. E poi non sopporto le classifiche, essere “il numero uno, il numero due, il numero tre”... Sono un autore, non uno sportivo. Sa qual è il mio sogno? Di usare pseudonimi diversi. Se qualcuno, comunque, riconoscesse che dietro ci sono io, allora sì che sarebbe un grande complimento.

Se non fosse diventato un regista?
Ah (ride) sarebbe stata una tragedia... Magari finivo a fare il dittatore.

La sua biografia è molto scarna: 46 anni, romano, ascendenze siciliane, una laurea alla Tisch School of the Arts, prestigiosa facoltà di cinematografia e teatro Usa. Cosa ha imparato a fare dagli americani e cosa, invece, a non fare mai?
Apprezzo il loro modo di fare squadra: quando ho vinto una borsa di studio con il primo cortometraggio, Call Me, con un concorso dove tutti avrebbero voluto vincere, a riempire per me - che non sapevo l’inglese - i formulari per la partecipazione, sono stati i miei coinquilini, i miei amici. Mentre non amo, del loro cinema, le lunghe, interminabili riunioni in cui la sceneggiatura viene sezionata scena per scena e si discute ogni dettaglio perché tutto sia perfettamente chiaro e lineare. Io cerco proprio un elemento di inspiegabilità razionale, detesto dare risposte, evito di spiegare tutto tutto e chiedo allo spettatore un piccolo sforzo. Quello di accendere la sua, d’immaginazione.

Come si fa a mantenere una privacy assoluta, quando - volenti o nolenti - si è famosi?
Fa parte del mio mestiere osservare, piuttosto che venire osservato. Mi comporto sempre come uno straniero. Se diventassi un centro d’attenzione, i miei poteri di osservatore si dimezzerebbero. Non mi piace apparire, non sarei mai un opinionista. Io costruisco delle immagini, cerco di creare degli impulsi elettrici tra me, i film che dirigo e il pubblico, realizzando un circuito che mi connetta con gli altri. Vorrei che le mie immagini parlassero per me. Non andrei mai in televisione a fare pubblicità, perché oggi la televisione è questo: pubblicità, anche di se stessi. In ogni caso, non vedrà mai un film “di” Emanuele Crialese, ma sempre “scritto e diretto da”. Perché il film non è solo mio. È di tutti quelli che lavorano con me. E anche, un po’, di chi lo guarda.