Da ragazzina sarebbe scappata con gli Who («Ero pazza per Roger Daltrey, credevo fossimo destinati a stare insieme»). Oggi, a 49 anni, potrebbe farlo con Eminem («Solo perché mio figlio lo ascolta di continuo. Ma per favore, non scriva che scapperei con lui!»). Non è preoccupata che il suo ultimo romanzo diventi un serial tv per HBO: «Non sarei mai capace di scrivere un sceneggiatura». Eppure con Il tempo è un bastardo ha vinto il Premio Pulitzer: Jennifer Egan - un’ex bad girl californiana che vive a Brooklyn con due figli e un marito con cui sta insieme da una vita - ha allestito una storia corale che è anche un esperimento narrativo dall’andamento cronologico inesistente, ma assolutamente (be’, forse assolutamente è un po’ eccessivo) comprensibile. Numi tutelari: Marcel Proust e I Soprano.

Egan gioca con le forme della scrittura e fa slalom tra tempo, spazio e le voci narranti di un produttore musicale (Bennie), la sua assistente cleptomane Sasha con i due figli Alison e Lincoln, la pr di un dittatore genocida (Dolly)... La lista dei personaggi è molto lunga. Dove si svolge? Si parte dalla San Francisco anni 70 per arrivare nella New York di un futuro imprecisato, passando per Napoli. E poi c’è il capitolo 12: composto solo da 70 slide in PowerPoint, Le grandi pause del rock. È il diario arrabbiato ed emozionante di Alison (in fragoroso contrasto con la freddezza della grafica), che racconta l’ossessione del fratello Lincoln per quelle canzoni che a un certo punto sembrano finire e invece no. Poi, però, finiscono sul serio. Un po’ come succede nella vita: a volte ti sembra di aver chiuso con una certa storia, e poi magari ti si presenta un’altra occasione per riviverla. «La mia pausa preferita è in Long Train Runnin’», ci racconta l’autrice.

Parafrasando i Rolling Stones, Time is on Your Side?
Il tempo non sta dalla parte di nessuno. Non è né buono né cattivo. È un dato di fatto. Senza di lui, vivere sarebbe insostenibile, ma lo percepiamo come un nemico. In realtà può alleviare i problemi: superare il dolore della perdita di qualcuno, per esempio. Ora “il tempo è dalla mia parte”, ma avverto comunque una continua sensazione di precarietà. Da un momento all’altro la mia fortuna potrebbe scomparire.

Si sente una persona migliore adesso di quando aveva vent’anni?
Penso di essere più a mio agio. Soprattutto perché allora non capivo - e non lo capiscono molti giovani - che le cose sarebbero continuamente cambiate. Pensavo che tutto sarebbe rimasto esattamente come in quel preciso istante e mi sembrava intollerabile. Credevo che non mi sarei mai liberata da una particolare brutta situazione. E andavo nel panico.

Che tipo di adolescente era?
Andavo ai concerti, ma non ero una vera punk. Uscivo di casa normale e poi cotonavo i capelli, mettevo un rossetto nero e una spilla da balia sulla t-shirt. Tutto finto, insomma. Ho provato qualche droga, a San Francisco negli anni 80 erano estremamente diffuse, ma per fortuna non sono mai finita nel giro di quelle pesanti. Ero una moderata, volevo essere parte di quella realtà, ma la mia predisposizione naturale era più quella dell’osservatrice. Più che altro io e i miei amici eravamo disperati di non essere nati un decennio prima per goderci i grandi anni 60 a Frisco. Andavamo in giro senza scarpe, gonne lunghe, capelli arruffati, ascoltando i Rolling Stones e gli Who. Poi sono arrivati i punk che odiavano tutto questo. È stato uno shock: ma poi ho scoperto che mi piacevano. Per esempio, i Sex Pistols erano fantastici.

A proposito, è più adatto ai nostri tempi il No Future dei Sex Pistols o The Times They Are a-Changin’ di Bob Dylan?
Meglio Dylan. Il pessimismo non porta da nessuna parte.

All’inferno sarebbe costretta ad ascoltare una sola canzone: quale?
La ballata numero uno di Chopin.

La playlist della sua vita?
The Passenger di Iggy Pop; Baba O’Riley degli Who. E You Spin Me Round (Like a Record) dei Dead or Alive, ma solo perché era una hit nell’estate che ho studiato a Firenze.

Ha vissuto in Italia?!
Solo un’estate: a 22 anni, grazie a una borsa di studio durata tre mesi.

E allora perché ha ambientato un capitolo nei vicoli di Napoli?
Nel 1997 ci sono stata con mio marito. La città mi ha impressionato profondamente: ho pensato: “questo posto ha un’atmosfera stupenda, prima o poi dovrò scriverne qualcosa”. Quel viaggio mi ha regalato in realtà l’ispirazione chiave per tutto il romanzo. Un giorno vedo questa strana ragazza in un vicolo, confusa, dai capelli rossi, la pelle molto abbronzata. Non sembrava italiana. Mi ricordo di averla guardata e di essermi chiesta cosa ci facesse lì. Sembrava una arrivata con uno zaino in spalla che si era persa nella città. Ed è diventata Sasha.

Ad alcuni dei personaggi di Il tempo è un bastardo viene concessa una seconda chance. Lei l’ha mai offerta a qualcuno?
Mah, non so... Forse al mio patrigno. Mi ha cresciuta perché ha sposato mia madre quando avevo quattro anni. Litigavamo spesso. Quando hanno divorziato, io avevo 18 anni e credevo che non l’avrei più visto. Ma lui ci teneva a starmi vicino come un vero padre. Io no. Era una figura problematica della mia vita. Non l’ho pianificato, ma piano piano ho finito per dargli una seconda possibilità. Tanto da diventare una di quelle persone a cui vuoi dire subito una bella notizia, ci capivamo al volo. È stata una seconda chance ben data, no?

Ha mai preso una pausa nella sua vita?
Mi sono presa un anno prima di andare all’università. Volevo vedere il mondo. Durante quel viaggio ho scoperto che volevo fare la scrittrice.

E oggi come si prende una pausa?
Faccio un sacco di pisolini ogni giorno, anche solo di dieci minuti.

Qual è il potere delle pause?
Ci ricordano che le cose finiranno prima o poi. Sono momenti in cui realizziamo che ogni cosa ha una fine, ed è ovviamente un pensiero su cui non vogliamo riflettere spesso. Per un secondo crediamo che il tempo si sia fermato, siamo sollevati quando la musica ricomincia ma pensiamo subito a quando si fermerà veramente.

Come ci si accorge che una pausa sta per diventare una fine?
Mio padre è stato investito da un camion, lì non c’è stata una pausa, ma solo una fine improvvisa. Il mio patrigno, invece, ha avuto la leucemia. Per un periodo è stato sedato per rendergli possibile respirare con una macchina. Tutti noi aspettavamo il giorno in cui glielo avrebbero tolto, per poter parlare di nuovo con lui. Era una pausa, anche se abbiamo avuto paura che si trasformasse in una pausa definitiva

Ecco: la morte è una pausa o la fine?
Tendo a pensare che sia la fine, ma sono pronta a tutto: se la vita è così piena di sorprese, perché la morte non potrebbe essere altrettanto sorprendente? In questi casi penso ancora al mio patrigno. Ho fatto mio il suo modo di parlare e pensare ed è quasi come se fosse ancora vivo in me. In fondo è questa l’unica forma di immortalità a cui possiamo aspirare.

Come i suoi personaggi anche noi possiamo trovare solo una “felicità limitata”?
Non penso che questo sia il messaggio del mio libro. Il solo limite alla felicità umana è la realtà, quel posto imperfetto nel quale tutti dobbiamo vivere, che raramente è conforme alle nostre fantasie. E anche quando le soddisfa, non hanno quasi mai lo stesso sapore che nella nostra immaginazione. Non significa che la felicità sia impossibile, solo che non sarà come l’avevamo immaginata. La tensione tra i desideri e le condizioni imposte dal mondo reale mi ha sempre affascinata.

Siamo quindi destinati a essere quasi sempre insoddisfatti? Ad accontentarci?
Le rispondo con una domanda: quanti anni ha? Immagino sia molto giovane, perché il compromesso fa parte della maturità. E se si definisce la felicità come non doverne fare mai, allora nessuno è mai veramente felice. È un concetto, la felicità, che appare molto semplice quando la si percepisce negli altri. Le cose sembrano perfette solo quando si è a una distanza tale che non si vedono i difetti.

Come si vede fra vent’anni?
Spero di aver scritto tanti romanzi migliori, di viaggiare molto con mio marito. Mi starò godendo la vita. Possiamo chiamarla “felicità illimitata”?

Il libro che avrebbe voluto scrivere?
La casa della gioia di Edith Wharton.

Vincere il Pulitzer cambia la vita?
Mi riconoscono di più per strada, ma solo a Brooklyn. Forse da voi è diverso: gli scrittori qui non sono star. Per me però è la prima occasione di far giungere il libro in tantissime mani.

Cosa farà alla fine di questa intervista?
Sistemerò il mio ufficio. Incontrerò un giornalista olandese per pranzo. E poi mi prenderò una pausa.