Io non so scrivere a macchina e tantomeno al computer, quindi per i libri di Fantozzi ho assunto una stenografa, le dettavo tutto. Era una signora per bene, molto rigida, sulle sue, ma io aspettavo sempre che ridesse; dettavo la battuta, ecco, questa è bella, vedrai che ride. Macché, era di marmo. Siamo andati avanti così due anni, mai un sorriso. Alla fine non ce l’ho fatta più, le ho chiesto se le mie battute non la facevano ridere. «No» ha detto. «Ma come? Ridono tutti» ho detto io. «Vede, io odio questo personaggio. Sono un’ex schizofrenica. M’infastidisce vedere un malato di mente come questo Fantozzi. M’intristisce». Ecco, io non sono un comico. I comici fanno ridere perché hanno un comportamento da tonto, da bambino. Capiscono le cose in ritardo. Stanlio e Ollio erano comici, perché erano dei bambini di cinque anni, bambini scemi privi di qualsiasi sessualità che facevano dei guai e facevano divertire così. Io no, alle donne non piaceva Fantozzi, dava fastidio quel comportamento lì, perché era tragico. Qualsiasi situazione con lui era tragica, veniva sconfitto in qualsiasi modo, sempre in presenza di un tiranno, sempre in attesa di una tibiata pazzesca sotto al tavolo. L’ho chiamato così per quello: Fantozzi, fantocci: pupazzi. Del resto, è stato quel momento lì, irripetibile, un colpo di Stato nella tv melensa di quegli anni.

Eravamo un gruppo strano, atipico, facevamo Quelli della domenica, io ero il presentatore che diceva ecco a voi un tragico trio con Ric e Gian, una catastrofe tremenda, ed era una rivoluzione del linguaggio medio basso della televisione: ha scatenato i fan, la trasmissione è diventata un culto, esorcizzavamo la paura dell’italiano medio di non sopravvivere alla durezza della vita consumistica: la vacanza, l’auto, il parcheggio. Ma quel linguaggio apparteneva a me, a mio fratello gemello, al mio amico Fabrizio De André: la finta crudeltà, la finta cattiveria erano uno stile che condividevamo e ci faceva sorridere, ci rendeva diversi e senza ipocrisie e alla fine si è riversato nei racconti di Fantozzi. È cominciato così, nel ’68, con dei bigliettini scritti a penna su cui segnavamo le battute e io le imparicchiavo a memoria e poi era tutta improvvisazione: a noi sembrava uno scherzo, ma poi avevamo l’indice di gradimento più alto. Se me l’avessero detto allora, mai avrei pensato che sarei diventato un aggettivo.

Eravamo di famiglie benestanti e questa è stata la fortuna, non avevamo l’angoscia di non farcela, non dovevamo sottometterci a certe regole e quindi eravamo considerati pericolosi: così abbiamo modificato il modo di stare in tv, le sue regole. Che adesso sono state reintrodotte, naturalmente: la gente pensa di vivere in una democrazia, ma non è vero, viviamo in una dittatura straordinaria, quella della televisione, che ha avuto la facoltà di abbassare il livello culturale del paese. E non è colpa mia.

Ne ho fatto parte, ma ho cercato di modificarla e mi sembra di esserci riuscito: la nostra era una tv paradossale, autocritica. Adesso è ipocrita. L’obiettivo sono i reality o i talk show e infatti non mi invitano perché mi considerano pericoloso: uno che può dire che Dio non esiste, anzi, che è pericoloso. Dio e l’aldilà sono tra le invenzioni più pericolose della storia del pianeta, milioni di morti e guerre di religioni, musulmani, ebrei, cattolici, indù, tutti a scannarsi per la presunzione di essere depositari della verità su Dio: questo è pericoloso. Ci sono miliardi di galassie che vorticano e s’allontanano ogni giorno e noi dobbiamo star qui a sentir della signora Maria che stava sul poggiolo ed è arrivato l’Angelo e le ha detto tra nove mesi tu partorirai il figlio di Dio, tu che sei vergine. Ma andiamo. Come se tutto quel che è stato detto e studiato e scritto sulla storia del mondo fosse da considerarsi un’aggressione a una grande verità: il Creatore. Il creatore, sì. E prima cosa facevi?

L’articolo uno della Costituzione dovrebbe essere la felicità americana del denaro. Denaro uguale felicità: io ci credo. Purtroppo sono più che mai convinto che se vincessi all’Enalotto avrei un’esaltazione assoluta per almeno quattro settimane. Ci sono costretto, nella nostra cultura è tutto. Fino ai 25 anni non ne avevo molto, come De André, si sopravviveva male; i soldi veri li ho visti dopo il primo Fantozzi, un milione e mezzo di copie, 37 edizioni. Nessuno se l’immaginava, avevano sottovalutato il potere della tv. E allora mi son fatto due giri del mondo, da ricco. Alberghi, aerei, tutto. Ho visto la barriera corallina australiana. A Roma si moltiplicavano gli amici, magari cadevo nella trappola, magari era una truffa, ma quello che sentivo era affetto vero. Mi telefonavano a novembre: a Capodanno cosa si fa?

Man mano che guadagnavo sentivo crescere come un’euforia: mi potevo permettere i migliori medici, ero più tranquillo. I figli non mollano i nonni ricchi sull’autostrada. Se diventano poveri, be’, insomma. La cosa più importante è scoprire che hai talento. Io ho vinto un Leone d’Oro a Venezia e due Nastri d’Argento, ma il senso del successo l’ho avuto con i figli: essere considerato bravo, intelligente, da loro. Certo, poi il successo inquina un po’ il rapporto, in fondo tu sei sempre un padre che li può aiutare, e allora.

In effetti ho sbagliato: la cosa più importante è essere ricco. Poi intelligente. Poi avere dell’affetto. Con le donne, non è che te ne accorgi, hai la tendenza a equivocare, non pensi di piacere per i soldi o per la notorietà, ma per il tuo fascino. Sono ricco, sono allegro, sono bravo: metti tutto in consuntivo, credi che sia per le tue qualità, non per il successo. La prima volta che me ne sono accorto è stata a Milano, in un ristorante giapponese. Ce n’era uno solo, all’epoca. Io ero al sushi bar e si è alzata una donna ed è venuta da me e mi ha detto: mi scusi, sa che lei è un bell’uomo? Ecco, io che mi vantavo di essere un mostro perché quelli che credono d’essere piacioni son fastidiosi, ecco, lì ho capito. Ma non è accaduto niente ugualmente, anche lei era un cesso.

Son poligamo, come tutti. L’amore monogamico è innaturale, il matrimonio monogamico è un’invenzione cattolica, anche se la prossima volta risponderò che sono monogamo. Un brav’uomo non è mai un Casanova e le biografie più intensamente vissute sono sempre quelle immaginarie, quelle che dicono: c’è solo mia moglie. Mia moglie, appunto, è un po’ speciale, non ha mai messo la fedeltà come cardine del rapporto. Esigere la fedeltà fino a creare delle vedove è una forma d’egoismo agli antipodi dell’amore. Che invece è la mancanza assoluta di senso critico nel giudicare le persone. La stessa gente, di cui magari non sopporti i difetti fisici, con l’amore cambia: li guardi con grande benevolenza. Pensi solo al benessere tuo e di questa futura vedova. Passato quel momento felice, quei difetti li rivedi tutti, ma rimane un po’ di gratitudine per aver collaborato a un momento di quasi felicità.

D’altra parte, non è che io abbia sofferto molto. Una volta ho pianto in un boschetto. Questa donna m’aveva dato una notizia spiacevole. È stata l’unica volta in cui ho pianto. Poi mi son detto: e chi se ne frega. Ci vuole abilità anche nell’evitare le buche. Quando cominci ad avere una macchina ben molleggiata ti chiedono di fare il sollevatore di gente disagiata, di quelli votati all’infelicità, gli esperti nell’individuare le fidanzate più pericolose, che diventano poi rompicoglioni malati, noiosi nei loro racconti di furti, inganni e trappole mortali. Vanno a Napoli con dieci orologi, poi piangono: m’hanno tagliato il braccio. Eh, ho capito, ma anche tu.

In tutta la vita io ho amato sei donne. La prima era una compagna di scuola, molto carina nel suo grembiule bianco. Andare senza grembiule allora era scandaloso. Della seconda non mi ricordo il nome, era un’amica dei bagni Lido di Genova. Lì c’erano già implicazioni più fisiche, più sexy. La terza è mia moglie, anche lei conosciuta ai bagni Lido. Io avevo 19 anni, lei 15, mi sono innamorato subito, fisicamente. Siamo andati a Sant’Ilario, sopra Nervi, in gita, con il pullman. Io cercavo di ben figurare e le dissi questa frase, ancora me la ricordo, chissà cosa m’era passato in testa. Le dissi: per noi, razza che gli anni non maturano, non resta che questo andare e venire di sogni. Lei rimase imbarazzata, mi guardava come se parlassi in sanscrito e in effetti aveva ragione, quel che dicevo non aveva nessun senso: si stava annoiando. Intanto eravamo arrivati sotto una magnolia, c’era un odore particolare, lei mi disse: fermati. Perché non mi dai un bacio? Ecco, quello fu la mia scoperta del batticuorismo, che è una delle anomalie forse più piacevoli, quella delle grandi emozioni che ti rendono difficile la respirazione e che dopo non si ripresentano più. Infatti delle altre tre donne ho deciso che non parlo: in fondo ormai hanno dai 75 ai 76 anni, sono felicemente sposate o anche vedove. Perché dovrei parlarne?

La qualità è emozionante, può dare molta felicità, se si è protagonisti. La scena del ballo nel film La voce della luna, per esempio. Quella mi ha dato emozioni notevoli, maggiori di quelle del successo commerciale, quella è la qualità. Con Fellini era così, arrivavi sul set alle sette di mattina, e voleva dire partire alle cinque, e chiedevi: che si fa? «Non ne ho la minima idea», rispondeva lui. «Ho questi foglietti». Te li passava. «Fate quello che volete». E poi, con quella sua voce sottile sottile ti suggeriva tutto, parola per parola: non controllava più la sua creatività, andava in una specie di semi-trance. Io sono sempre stato mentalmente più veloce di tutti quelli con cui ho lavorato, ma non di lui. Era speciale, aveva delle illuminazioni a livello irraggiungibile. Era diverso, al di sopra. Per questo non aveva amici, perché si annoiava. Forse Mastroianni, ma era sempre molto solo, aveva bisogno di un pubblico. Ma ce l’abbiamo un po’ tutti, no?

Anche De André era molto ambizioso, molto preoccupato di essere riconosciuto. È il problema degli ultimi vent’anni: essere riconosciuti. I writer sui muri, i tifosi che sfasciano il treno: è perché sono invisibili e invece vogliono essere riconosciuti. Lasciare un segno. Come i rivoluzionari, la loro grande vanità è andare dove c’è da menar le mani; allora meglio i grandi scrittori. C’è della vanità anche lì, ma almeno il segno che lasciano è indelebile. In percentuale, non saprei dire quant’è la vanità in me. Certo, se a teatro non mi mettono in prima fila, m’incazzo. Ma non succede mai, vado solo alle prime degli amici. Devo solo guardarmi da quelli che dicono: ti ho dovuto difendere. In realtà, fanno così per dirti che gli stai sui coglioni. L’altra sera ero in un salotto, si parlava del Milan o di Kate Middleton, una si alza, va in bagno. L’amica, quella che aveva dovuto difenderla, la guarda. «Le voglio bene più che a me stessa» dice sottovoce. «Ha avuto rapporti anali con un somaro». Le donne hanno dei microtempi geniali. Ma tutto sommato, direi che adesso la mia vanità è stata appagata.

Punto molto sui funerali. Non dico ben venga la morte, l’unico vero bene è aver vissuto felice, ma adesso il funerale è il problema. Dopo quelli di Sordi, a Roma non si può più. Anche a Genova, dopo quelli di De André, non c’è più storia. Devo trovare una persona che me li organizzi per benino, oppure niente. Scomparire completamente, non dare nemmeno la notizia. Però mi dispiacerebbe perdere la possibilità di scrivermi il coccodrillo per Repubblica o il Corriere. Allora potrei andare sul paradossale. Invece che la semplice cremazione, sto pensando alla possibilità della bollitura. M’immagino un bel pentolone in piazza del Popolo, con i fiori dentro, la preparazione, tu che arrivi e tutti che applaudono. Però devi avere il diritto a essere preservato da cose umilianti, tipo il limone o la carota. La carota può suscitare ilarità.