Il cinema lo impegna molto, ma Claudio Santamaria, romano “de Roma”, papà di Emma, 5 anni, avuta da Delfina Delettrez, cede spesso alle lusinghe del teatro, del doppiaggio e della tv. Ora è sul set di Non è mai troppo tardi, la minifiction Rai che racconta la storia di Alberto Manzi, il maestro che tra il ’59 e il ’68 ha insegnato a leggere e a scrivere agli italiani con un programma televisivo rimasto nella storia.

Santamaria non sapeva molto di Manzi, ma studiare il personaggio lo ha folgorato. Non è mai troppo tardi andava in onda in pieno boom economico, quando il “pezzo di carta” bastava per farsi una posizione.

Ora, invece?
Ora serve una politica che sostenga le persone. Lo pensavo da un po’ e approfondire la figura di Manzi me ne ha dato conferma. Se la scuola è obbligatoria, e per frequentarla pago le tasse e rispetto le regole, poi mi dovrebbe dare la possibilità di trovare una collocazione e mettersi al servizio della comunità, oltre che giovare a se stessi. Non credo nella società competitiva, né apprezzo la meritocrazia, che per me è una balla.

Che intende?
Manzi ad esempio valorizzava il singolo all’interno della collettività. Non creava divisioni e non voleva una classe individualista, ma cercava di tirar fuori il meglio da ognuno. Noi, invece sguazziamo fra gli squali, va avanti il più bravo, quello spalleggiato dalla famiglia. E il meno dotato rimane indietro. Ma sorpassare gli altri perché papà aiuta non è meritocrazia. Neanche passare avanti perché sei il più intelligente. Mi spiego meglio. Prendiamo due individui con le stesse possibilità economiche, entrambi cresciuti in famiglie piuttosto avare di incoraggiamenti. Uno dei due soccombe, l’altro trova la forza di reagire e fa strada. Bravo, no? Eh no! Che merito c’è nell’essere nato con un carattere forte? Se l’altro ha avuto la sfortuna di nascere pavido, lo buttiamo via? Il coraggio, la determinazione, il talento sono doni della natura di cui non abbiamo merito. È pura fortuna, come nascere ricchi. La vera meritocrazia è aiutare ognuno a tirare fuori il meglio di sé, soprattutto quelli che non hanno il coraggio di farlo. C’è un paragrafo del romanzo Le voci del mondo, di Robert Schneider, che dice: «Quanti uomini meravigliosi, filosofi, pensatori, poeti, pittori e musicisti il mondo avrà perduto solo perché a essi non fu concesso di imparare la propria arte?». Mi sembra che riassuma bene il concetto.

Secondo lei, esiste un paese dove questo viene già applicato?
Certo, è Cuba. A Cuba chiunque può permettersi un’operazione a cuore aperto dal miglior chirurgo. Perché lì ognuno impara quello che gli riesce meglio e poi viene messo a disposizione della comunità. È la vera meritocrazia, esente da competizione. Quando ho girato La terra degli uomini rossi, di Marco Bechis, persino fra gli indios in Amazzonia ho visto un senso della collettività che noi ci sogniamo.

Quindi, cosa dovrebbe insegnarci oggi una trasmissione come quella del maestro Manzi?
Forse a essere uniti, perché il campanilismo in Italia è ancora troppo forte. Basta leggere Terroni, di Pino Aprile, per scoprire che l’unità d’Italia è partita dal furto della cassa del Regno delle due Sicilie da parte dei Savoia, il che non è una bella premessa per fondare una nazione. E poi, nella tv generalista dovrebbe esserci più arte, più cultura. Pensiamo al controsenso di finanziare con fondi pubblici un film di valore culturale e di chiedere poi alla produzione un sacco di soldi per promuoverlo. Se è stato riconosciuto come progetto utile alla comunità, la tv ne deve parlare. Gratis.

Lei è cresciuto nel rione Prati: che faceva un bambino in quella zona di Roma, negli anni 70 e 80?
Sono nato nel ’74, degli anni di piombo ricordo poco. Ho cominciato a uscire da solo intorno agli otto anni, c’erano molte meno macchine e stavo sempre per strada a giocare a pallone, o a guardie e ladri.

Che tipo di bambino era? Bullo, secchione, capobanda, bonaccione?
Ero un grandissimo impunito, con i miei amici facevamo tanti di quegli scherzi, dal “suona e fuggi” ai citofoni ai raid armati di bombolette di schiuma da barba. Anche a scuola, quando il preside chiedeva «Chi l’ha fatto?», potevi stare sicuro che era opera nostra.

E intanto, che cosa sognava di fare da grande?
L’architetto, mi piaceva disegnare case. Mia madre mi ha iscritto al liceo scientifico, ma ci stavo malissimo. C’era una professoressa che incarnava l’esatto contrario di quello che un insegnante dovrebbe essere. Mi sfotteva sempre: «Santamaria, non hai capito?». E io le rispondevo: «No, prof, non la ascoltavo proprio, perché non mi interessa quello che dice». Così mi sono fatto bocciare e sono passato all’artistico. Lì ho conosciuto una professoressa straordinaria che mi ha convertito persino alla matematica. Mi diceva: «Partiamo dal punto in cui ti trovi tu», come Manzi. Sembrava quindi che la passione per il disegno e la matematica dovessero convergere nell’architettura.

E invece, che è successo?
E invece sono finito a recitare. Ma come m’è saltato in mente? Scherzi a parte, mi piaceva registrare la mia voce, creare personaggi. Una volta, avrò avuto 17 anni, ho registrato una cassetta con un finto programma radiofonico per la mia fidanzatina che partiva per il Brasile e mi son trovato a frequentare una scuola di doppiaggio così, per gioco. Finite le superiori, non ero più così sicuro di quello che volevo. Ho seguito le lezioni di Biologia senza essere iscritto, poi ho iniziato a lavorare in teatro e mi sono iscritto a Lettere, con indirizzo spettacolo. Ma la prima tournée mi ha portato lontano, ho perso l’attitudine allo studio e addio università.

Parliamo di sua figlia Emma. Che tipo di papà sarà con lei? Geloso? Complice?
Oddio, geloso no. Però butterò un occhio perché il fidanzato la rispetti. Se no lo lancio da una finestra! Per quanto riguarda controllarla… be’, certo, vorrei sapere sempre quello che fa, vorrei che stesse bene. Quindi opererò su di lei un controllo… no aspetti, poi da grande leggerà quest’intervista e non potrò metterlo in pratica.

E lei la nasconda…
E va bene: ho intenzione di mantenere un controllo sotto copertura. Senza domande da inquisizione, tipo: «Dove sei stata? Che hai fatto?». Mia figlia sarà libera di fare la sua vita e le sue esperienze, così come l’ho fatte io. Da bambino ho corso anch’io tanti rischi, ma ne ero cosciente. Però le dico sempre di fare le cose con consapevolezza.

Così piccolina?
Glielo dico da quando ha due anni e mezzo. Cerco di parlarle come a un’adulta. Una volta dovevamo scendere le scale a chiocciola e non voleva darmi la mano. Avevo due possibilità: dare per scontato che fosse inutile spiegarle il motivo, e forzarla. La seconda era abbassarmi al suo livello e dirle: «Ok, se scendi le scale da sola potresti cadere perché sono buie e strette. Se invece mi dai la mano, non corri pericoli». E lei ha capito. Credo che i bambini capiscano tutto già da appena nati.

E chi le spiegherà le cose della vita?
È ancora così piccola…

Guardi che fra un attimo chiederà come nascono i bambini. Non le piacerebbe che venisse a confidarsi con lei, quando avrà la prima cotta?
Ne sarei felicissimo, se sarà lei la prima a parlarne. E per rispondere improvviserò, ispirandomi a quello che ha scritto Bruno Bettelheim nel libro Un genitore quasi perfetto. Mi è piaciuto perché non ti dice quello che devi o non devi fare. Ti riporta delle situazioni e come ha ottenuto il risultato migliore nell’affrontarle.

Quali sono i riti di passaggio di sua figlia che non si vuole perdere?
Preferisco assistere alle piccole cose che costruiscono a poco a poco la sua personalità. È uno spasso ascoltarla quando mi confida di aver bisticciato con le compagne d’asilo. A quella età i ricordi si affastellano nella testa e all’improvviso il discorso vira verso altro. I bambini sembrano perennemente sotto l’effetto di strane sostanze, devi ascoltarli come faresti con un ubriaco. Quando invece ha un problema, le ricordo quante storie aveva fatto in piscina. Non ci voleva proprio entrare, e mentre gli altri bambini la incitavano e dicevano che non doveva vergognarsi della cuffia, semplicemente l’ho messa in acqua.

Così, a tradimento?
Certo, lo fanno anche i pescatori, immergono i figli dalla barca. A volte i metodi delicatamente traumatici sono efficaci. Infatti ha frignato qualche secondo e poi ha cominciato a ridere. Ora ha fatto la sua prima gara e fila come un razzo. Mi chiede persino di raccontarle questa storia come una favola.

Per far divertire sua figlia accetterebbe un ruolo buffo, come Johnny Depp con Jack Sparrow ed Emma Thompson con Tata Matilda?
Magari! Mi dispiace che la maggior parte delle cose che faccio, lei non possa vederle. La fiction su Manzi forse sì, ma nel mio spettacolo teatrale, Occidente solitario, ci sono così tante parolacce che figuriamoci se ce la posso portare! Potrei fare Peter Pan, o Aladino, o il Gatto con gli stivali, che lei adora. Oppure uno dei personaggi che inventiamo quando giochiamo.

A proposito di Aladino: se trovasse la lampada, come spartirebbe i tre desideri?
Due per lei e uno per me. Per amare i figli devi amare anche te stesso.

E cosa chiederebbe?
Vorrei i poteri di Superman. Giuro. Pensi quante ingiustizie potrei fermare. Per mia figlia, invece, vorrei che crescesse bene e che fosse felice. Ma posso cercare di farlo avverare anche senza lampada magica.

La sua collega svedese Noomi Rapace è arrabbiata perché le chiedono sempre come fa a conciliare la carriera col ruolo di mamma, una domanda che non viene mai rivolta ai colleghi padri. A lei la paternità ha cambiato qualcosa?
Mi ha condizionato a non accettare più i ruoli che mi portino lontano da casa a lungo. Diventare papà sposta il lavoro più in basso di un gradino, nella scala delle priorità. Quando ho girato in Brasile, Emma aveva solo 20 giorni e dovevo mancare per due mesi. Avevo paura che rinunciare a quel progetto a cui tenevo, avrebbe piantato il semino dello scontento nel mio ruolo di neopapà. So che è meschino dirlo, ma inconsciamente è così. Ovviamente, se la madre di mia figlia avesse detto di no, non sarei andato. Invece, un giorno Emma vedrà il film e sarà orgogliosa del padre che si è adoperato per una buona causa. Anche ora, quando parto in tournée, Emma si imbroncia. Ma quando torno sono felice e condivido la felicità con lei. Per i bambini è importante vedere i genitori realizzarsi facendo quello che gli piace, così lo faranno anche loro.

Qual è l’emozione del diventare padre che potrebbe convincerla ad avere altri figli?
A me i bambini sono sempre piaciuti, se fosse dipeso da me li avrei avuti già a 20 anni. Mi affascina il modo in cui ragionano, crescono, si evolvono, mantenendo intatta la loro essenza più profonda. Mi piace rapportarmi con loro, forse perché non sono mai cresciuto. E poi c’è l’amore incondizionato che dai e ricevi. La prima volta che ho preso in braccio Emma sono scoppiato in lacrime. E sono pronto a rivivere quella sensazione altre mille volte.