Questo articolo è su Esquire numero 10, che trovate in edicola.

Certo che volevamo parlargli. Uno che ha in curriculum “un romanzo storico sulla fine del mondo” (come lui stesso l’ha definito) è per vocazione l’uomo da sentire ora, subito. Davide Dileo, in arte Boosta, tastierista e co-fondatore dei Subsonica, cantante, compositore, scrittore, nonché dj internazionale, produttore, presentatore tivù e radio e di recente anche pilota d’aereo, durante il lockdown invece si è visto di rado.

Da autentico portatore sano di leggerezza, ha fatto pochi commenti e molto i fatti suoi. Poi ha deciso di regalarci, su Instagram, nove minuti del suo tempo. Giusto qualche lampo di intimità, messo in circolo con una discrezione (per un’artista sembra un controsenso, ma in questo caso assolutamente non lo è) che dice tutto del personaggio.

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Foto di Damiano Andreotti, Ivan Cazzola

Primo post (il profilo si chiama appunto così, 9minuti): si comincia dalle nuvole. C’è un cielo sullo sfondo e poi quelle che crescono, si gonfiano, corrono. Un video da un minuto e le sue note. E così per altre otto volte. Appena il tempo per sussurrare qualcosa e inventare un racconto, dare uno spunto, insinuare un’idea. Stop. Al nono minuto, il nono brano, progetto concluso. In tempi di iperpresenzialismo e abbuffate mediatiche, solo pillole di note. Semplici. Oneste. Calibrate.

Forse l’indizio di quella “assunzione di responsabilità” di cui Davide Dileo, in un tranquillo pomeriggio d’estate post fine del mondo, attacca a parlare subito come a riprendere un vecchio discorso che merita ripetere ancora.

«Pensiamo a quello che abbiamo visto nei mesi scorsi. Ai flash mob sui balconi, ma anche ai grandi concerti in streaming. La musica è un’esigenza, non una cosa qualsiasi. È un collante della memoria. Vale. E allora non possiamo mangiare bio e poi consumare musica da discount. Solo che per arrivare a questo dovremmo tutti fare un discorso di responsabilità. Artisti, discografici, produttori. La musica è cultura e la cultura è una necessità. Se non si capisce questo, non si arriva da nessuna parte».

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Foto di Damiano Andreotti, Ivan Cazzola

Siamo nel suo quartier generale, precollina di Torino, la città dove Davide ha incominciato e dove abita. Una stradina laterale, case basse, cancelli che danno sul verde. A un signore che si aggira mani in tasca in un cortile chiediamo dello studio di registrazione. Non sa, ma ci indica una porta sulla destra, «perché lì ho visto dei ragazzi».

Pantaloni scuri, t-shirt bianca, barba indecisa, il nostro ragazzo sta per compiere 46 anni, suona da quando ne aveva 14 e per la musica ha fatto di tutto, lezioni di canto ad adolescenti stonati, intrattenimento ai matrimoni, le ore piccole al piano nei ristoranti, qualunque cosa fosse utile per comperare, a rate, i suoi strumenti. Fino a diventare quello che è. Uno che il popolo degli autografi non se lo fila neanche tanto, ma che al semaforo trova spesso chi lo saluta chiamandolo per nome, o chi lo ferma perché ci tiene a offrirgli un caffè.

Che cosa c’è che non ti piace in questo tempo di “poca responsabilità”?

Che è tutto un po’ troppo catchy, e non solo nella musica. Non si può accontentarsi di ballare una sola estate. Non si può abbassare a tutti costi il livello del discorso per essere sicuri di catturare il consenso. Quando gioco nella nazionale cantanti ogni tanto mi guardo intorno e penso: quanta di questa gente non sarebbe qui, se avesse incominciato oggi?

Noi ci siamo formati in un momento in cui le case discografiche ti mettevano sotto contratto anche per un paio di dischi di seguito. Magari non andava subito benissimo, ma qualcuno ti dava il tempo di crescere e diventare te stesso. Un album durava anni. Oggi solo qualche mese. E sei stritolato da un incalzare continuo, spesso proprio nel momento in cui potresti dare di più, all’inizio: è lì che esce la tintura madre di un artista.

Allora in un certo senso è anche questa una specie di fine del mondo. In Un buon posto per morire, il romanzo che hai scritto con Tullio Avoledo, già ne parlavi, quasi dieci anni fa, e alla fine un disastro è arrivato davvero.

Quello era un disastro diverso, si trattava di salvare il pianeta da una catastrofe, di fermare il conto alla rovescia. Però è vero che il nostro tempo è diventato così, sempre più fragile: bisogna capire che nessuno può farcela da solo, e poi che tutti dovremmo sviluppare una maggiore capacità di scelta, eleggere dei buoni maestri. È importante avere delle guide. La tecnologia ci ha abituati a fare qualunque cosa e ad andare sempre più veloci. Ma questo non significa fare a meno di chi è più competente: dal macellaio al giornalista, al politico, serve gente che ci aiuti a porci le domande giuste. Perché la competenza è anche responsabilità, appunto, e tutto può solo ricominciare da lì.

Tu la tua responsabilità te la sei presa. Dal 2019 sei direttore artistico di un’etichetta gloriosa, la Cramps Records, negli anni Settanta quella di Area, Skiantos, Finardi, Camerini. Voglio riportare complessità nella musica, hai detto, cogliere l’occasione per una riflessione collettiva.

Sì, perché non basta il puro intrattenimento. Per esempio, io amo tantissimo la musica leggera. Cosa c’è di più bello di centomila persone che cantano la stessa cosa insieme? Però, se la musica sonorizza le nostre vite, non si può depotenziarla sistematicamente con roba qualunque. È la qualità che conta, a qualsiasi livello. Pensiamo a una canzone come Avrai, di Baglioni. Facile da cogliere, ma elaborata, raffinata, una quantità incredibile di accordi.

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Foto di Damiano Andreotti, Ivan Cazzola

Nel tuo nuovo ruolo hai fatto scoperte interessanti, trovato talenti?

Niente che mi stupisse. Mi sono arrivati tantissimi demo, ma tutte copie sbiadite di cose già sentite. Direi che le persone con una creatività magica forse non si rivolgono più alle etichette. E che serve gente capace di fare musica con una data di scadenza più lunga, che abbia voglia di superare il proprio limite. È una regola sempre valida, nel lavoro, negli affetti.

Durante il lockdown i Subsonica hanno tirato fuori un inedito, Mentale strumentale, dieci brani con dentro tutta la vocazione del gruppo a ricerca e sperimentazione. Registrato e completato nel 2004, l’album è stato pubblicato lo scorso aprile per fornire agli ospedali di Torino e Asti dispositivi per l’emergenza sanitaria. Credi che lo stop brusco che abbiamo vissuto ci abbia insegnato qualcosa? Il grande spavento lascerà anche tracce positive?

Guardandomi intorno direi che si è rimasti empatici solo fino a quando eravamo in gabbia. Adesso sono tornati in azione quelli che si preoccupano soprattutto di parlare alla pancia della gente.

Una volta hai detto che per recuperare magia dovremmo intercettare un po’ di meraviglia, recuperare lo stupore. Dove la trovi tu oggi la meraviglia?

Sono stato all’Elba lo scorso fine settimana. Una natura maestosa, pacificante. Un silenzio. Io la vedo lì la meraviglia. Nella vita di tutti i giorni faccio un po’ fatica. Penso anche al primo concerto dopo il lockdown: tuoni, lampi, c’è stato un acquazzone tremendo, non riuscivo nemmeno a sentire il suono del pianoforte. Però la voglia di tornare a fare musica era tanta, così ho scelto di cominciare con un brano difficile, cosa che in genere non faccio mai. L’avevo appena scritto e non lo sentivo ancora tra le dita, tanto che a un certo punto mi sono impappinato e ho dovuto bloccarmi. Una volta sarei morto per una cosa del genere. Morto. Adesso dico, va bene così. Anche l’imperfezione ha una sua bellezza. La meraviglia è che non mi fa più paura l’errore. L’unica paura vera è di non andare avanti, di ritrovarmi oggi lo stesso di ieri.

Quali sono invece le tue musiche dei ricordi?

Be’, innanzitutto direi l’hard rock degli AC/DC, una delle più grandi rock band della storia, la mia energia quando ero ragazzino. Poi Bacharach. È stato il primo disco che ho rubato a mio padre, Dionne Warwick che canta Burt Bacharach. Poi i Beatles, due pezzi in particolare, A Day in the Life e Strawberry Fields Forever. Aggiungo Concerto di Colonia, di Keith Jarrett. Potrei buttare quasi tutti gli altri dischi, ma quello no. L’ho ascoltato tanto anche durante la pandemia.

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Foto di Damiano Andreotti, Ivan Cazzola

È vero che a un certo punto volevi aprire un bar, a Torino?

Sì, in una bocciofila, con un piccolo teatro e un salotto col piano. Volevo andare lì una volta la settimana, cantare, suonare. Ma niente, non si farà. Era una struttura dismessa, ci chiedevano di rimetterla a norma a nostre spese, di usarla per l’estate, a un canone alto, e poi di restituirla per metterla a bando. È faticoso, a volte, lavorare con le istituzioni.

La stanza intelligente, nel 2016, è stato il tuo primo vero album da solista. Hanno scritto che era un modo di staccare dall’elettronica e prenderti più tempo per te stesso. Il filone continua? Cosa farai nei prossimi mesi?

Con i Subsonica, che restano l’astronave madre, la priorità, avevamo un paio di tour in sospeso, e riprenderemo con quelli. Prima, sì, andrò in giro con concerti miei, voglio fare musica senza pensare alla forma canzone. Sarà tutto strumentale, voglio essere la colonna sonora di questo momento, mio personale e di chi mi segue.

E altri dischi da solista?

Certo, questo lavoro diventerà un disco. Non ce l’ha ancora un nome. Sarà una passeggiata tra pianoforte ed elettronica, le mie due grandi passioni. Sarà una cosa semplice da ascoltare; un discorso profondo, ma in un disco semplice. Ecco, aspetta, adesso che ci penso: sì che ce l’ho un nome. Facile. Si chiamerà così il mio prossimo disco.

In realtà ha tutta l’aria di essere un lavoro molto complesso. Ma in conclusione, che cosa chiede soprattutto Boosta a se stesso?

Non ho mai pensato a me come Boosta. Boosta è sempre stato solo un contenitore, con tratti della mia personalità. Che cosa chiedo io a me? Voglio riempire il silenzio di chi ascolta, voglio permettere alla gente di trovare nella musica uno spazio per tornare in se stessa. Fondamentale. Facile.

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Foto di Damiano Andreotti, Ivan Cazzola
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