A Londra sono appena stata a un party divertente, praticamente un’eccezione. Si è tenuto su diversi piani di una casa di South Kensington, ed è stato “eccezionalmente divertente” per più di una ragione. Nessuno che se ne stesse lì a scattare selfie o con lo sguardo sempre fisso sul proprio iPhone. Conversavano tutti in modo amabile, si scolavano champagne e gustavano il risotto, che sobbolliva in una gigantesca casseruola ricevendo le attenzioni di tre splendidi italiani. Continuavano a suonare alla porta, un fiume di nuove persone si riversava in casa e i nostri ospiti presentavano ciascuno con lo stesso humour e la stessa affabilità. Nessun trattamento di favore per i loro amici famosi. E, mentre una cesta di pane toscano dopo l’altra veniva divorata, non ho mai sentito pronunciare l’espressione “intolleranza al glutine”: ah, che sollievo.

Non fraintendetemi. Io adoro essere una mamma single di 55 anni che abita e si guadagna da vivere a Parigi. Ma, in generale, penso che i party non siano più così eccitanti, sono diventati banali, una noia. Quella serata londinese, invece, è stata come rituffarsi negli spensierati anni Ottanta, quando - come ho scritto nel mio memoir After Andy - io e le mie amiche per divertirci presenziavamo a eventi in società, inaugurazioni di gallerie d’arte e a volte qualche evento legato alla moda. Eravamo autentiche e spontanee, per noi era più importante avere l’occasione di incontrare anime gemelle, o un potenziale amore, della reputazione professionale o di stare lì in posa per un account Instagram.

I party anni 80 con Mick Jagger, Andy Warhol e Jack Nicholson raccontati da Natasha Fraser-Cavassonipinterest
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La cover del libro-memoir di Natasha Fraser-Cavassoni: After Andy: Adventures in Warhol Land (Blue Rider Press) con i racconti della sua vita da insider alla Factory di Andy Warhol tra feste, il lavoro per il magazine Interview e per W e Harper's Bazaar.

È vero, eravamo giovani, ma diversi all’interno del nostro entourage allargato londinese. Di giorno si lavorava duramente, ma di notte ci si divertiva, era questo che ci accomunava, che ci faceva tutti uguali, non certo l’attuale ossessione e/o paura di scambiarsi - 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana - informazioni su successo, amicizie famose e soldi. Sì, c’erano dei super ricchi negli anni 80 ma non erano molti e soprattutto non ti sventolavano i loro soldi in faccia. I conti del ristorante venivano presi e pagati con discrezione.

La regola era sapersi integrare e avere qualcosa di speciale: essere mostruosamente arrogante ma straordinariamente acuta e spiritosa, oppure molto loquace e piena di charme, oppure silenziosa e clamorosamente bella. Io ero una chiacchierona. Avendo avuto un padre che era in politica, nelle relazioni sociali mi sentivo incredibilmente a mio agio ed ero capace, letteralmente, di sostenere una conversazione con una porta. È così che sono diventata amica di quella tipica bellezza del Sud che è stata Marguerite Littman. Lei abitava a Belgravia ed era famosa per i lunghi pranzi a casa sua, che duravano ore e sembravano non finire mai. Immaginatevi un menu di impeccabili mini soufflés al formaggio, un’infinità di orchidee bianche - allora sconosciute -, disegni di David Hockney e un mix di ospiti tra cui figuravano il drammaturgo Tennessee Williams, il poeta Stephen Spender, Elizabeth Taylor, Bianca Jagger e Andy Warhol.

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Natasha Fraser-Cavassoni nel 1981 con il playboy brasiliano Roberto Shorto e l'artista David Hockney (foto Soevermedia)

Marguerite preferiva sembrare un po’ sciocca ed estrosa piuttosto che intellettuale e/o pretenziosa perché così metteva tutti a proprio agio. Ma era orgogliosa del suo flair e del suo talento nelle relazioni sociali. E nel febbraio del 1980, quando sull’edizione britannica di Vogue era apparso un mio ritratto a tutta pagina, mi presentò a Warhol che era sempre in cerca di donne che fossero belle o amassero molto chiacchierare. La prima volta che ci siamo incontrati, l’artista americano ha provato a mettermi insieme a uno che faceva il modello per Armani. Mi è venuto da ridere ed è scoppiato in una risata anche lui. Poi, la seconda volta che ci siamo visti - al nightclub Régine per un party in suo onore - anche se Andy era scioccato che il mio vestito con tutù di tulle nero costasse solo 20 sterline, gli sono stata addosso e l’ho seguito ovunque, mentre lui continuava a scattare foto.

Non ero esattamente elegante, avevo sedici anni, una massa di capelli neri che mi tingevo da sola di un colore inchiostro, strizzavo le mie morbide curve tutt’altro che toniche in vestiti vintage da due soldi ma ero molto curiosa e avevo una fantastica joie de vivre. Vogue mi aveva definito una delle bellezze degli anni Ottanta - «il mondo è loro» aveva pronosticato la rivista - ma come la maggior parte di chi veniva dall’upper class non mi importava niente di cosa pensassero gli altri. I party dovevano essere spensierati e divertenti, si doveva sperimentare ogni genere di droga e cocktail esotico e, essendo tempi pre-Aids, la promiscuità andava molto. Anche le rockstar più famose erano accessibili, e arrivavano senza nessuna corte al seguito.

Potevano essere accompagnate da una guardia del corpo, ma si facevano le loro telefonate da sole. L’ho realizzato quando ho avuto una storia con Mick Jagger. Era lui che si occupava di tutto, dai biglietti per il concerto di Stevie Wonder al prenotare un tavolo da Ken Lo’s Memories of China - un ristorante cinese molto alla moda -, e tutto questo mantenendo i piedi per terra, e sempre con una cortesia squisita. Se prendevamo un taxi firmava con molta grazia autografi ai taxisti e quando si era procurato i biglietti per l’ultimo incontro di boxe di Muhammad Ali non aveva richiesto uno speciale posto transennato per lui e per i Rolling Stones. Fuori nel foyer, Mick, Keef (Keith Richards, ndr) e gli altri sorseggiavano birra in bicchieri di plastica come chiunque altro. Quando non erano sul palco gli Stones erano rilassati, a differenza di Iggy Pop, il “wild man” del rock’n’roll. L’ho conosciuto insieme a Malcolm McLaren, il manager dei Sex Pistols, e nonostante fosse carismatico, Iggy era quello che definiresti un cocainomane fatto e finito.

La cocaina era la droga del momento. Nel 1981 il mercante d’arte Martin Summers e sua moglie, la fashion stylist Nona Gordon Summers, avevano dato un party in onore di Jack Nicholson, e c’era più eccitazione nei loro bagni rivestiti di marmo che nel salone firmato dall’archistar d’interni Renzo Mongiardino. Naturalmente io cercavo la polvere bianca. Cosa che aveva generato un piccolo problema. Ho trovato un bel mucchio di cocaina, ma inavvertitamente ne ho spazzato un altro con la gonna buttandolo dentro un lavandino. È successo per davvero ed è stato un tale shock che mia cugina - che era seduta sulla vasca da bagno aspettando il proprio turno - per poco non ci è caduta dentro dal ridere. Pensavamo che nessun altro avesse visto il mio atroce misfatto finché il padrone di casa ha insistito per farci una foto, mettendoci ognuna a un lato dello zio Jack.

Ho sentito la mano della star del cinema scivolarmi su per una coscia fino a toccarmi il sedere. «Non dirò niente a nessuno se neanche tu lo farai», mi ha sussurato Nicholson. Ero sorpresa ma non mi sono sentita molestata perché era sfacciato e divertente. In più Nicholson era sexy in modo assurdo, con un sorriso assassino e la “faccia da letto”. Naturalmente Londra aveva la sua quota di tipi alla Harvey Weinstein e di brutti pervertiti. Al club Annabel’s, il pittore Lucian Freud mi si era strusciato contro, armato di un’enorme erezione. È stata l’unica volta in tutta la mia vita in cui ho avuto paura, anche se eravamo su una pista da ballo circondati dalla gente. Dopo, comunque, ne avevo parlato con le mie amiche e avevamo concluso che fosse un povero stronzo. Esattamente come gli uomini che raccontavano le loro conquiste ai quattro venti, considerati parte della stessa categoria. Tutti dei misogini idioti. Però era tutto alla luce del sole. I maschi incapaci di rispetto e le avances sessuali subìte erano il lato negativo di quella vita vissuta al massimo. Di certo, comunque, non permettevamo loro di rovinarci la vita. La vita andava afferrata per le corna. Ci rifiutavamo di sentirci vittime di qualche idiota, assolutamente no e poi no.

Anche per questo i recenti scandali e le accuse di abusi sessuali mi hanno profondamente rattristato. Non puoi impedire che tipi orrendi come Harvey Weinstein si comportino in modo mostruoso, però puoi non scrivere più di loro e non prolungare così il loro abuso di potere. Perché piuttosto non capovolgere la situazione? Intervistare Weinstein e scoprire che cosa lo fa agire da mostro. Saperne di più sui suoi problemi sessuali e le sue perversioni invece di dipingerlo come un incomprensibile buco nero. Verso la fine della sua vita, Donald Cammell, il regista di Sadismo, ha avuto problemi perché aveva una fidanzata molto giovane. Però io li ho incontrati a casa del produttore cinematografico Hercules Bellville ed erano pazzi l’uno dell’altra. Ciascuno a suo modo, e non dovremmo rispettare piuttosto che giudicare e condannare?

In base alla mia esperienza, Donald era un eccentrico dotato di un fantastico senso dell’umorismo. Voleva che interpretassi la regina di Napoli nel film che intendeva fare su Emma, Lady Hamilton. «Emergerai dal mare con il seno nudo avvolto nel pizzo», mi aveva spiegato. Gli avevo detto di sì a patto che lui comparisse con indosso un paio di pantaloni simili al costume che avrei dovuto mettere io, e lui era scoppiato in una risata fragorosa. Quando ricordo quegli anni frenetici e folli, sorrido e spero che le mie figlie, che hanno 16 anni, si divertiranno come mi sono divertita io quando ne avevo venti, perché essere felici è la miglior vendetta.

Natasha Fraser-Cavassoni, classe 1963, è un’aristocratica inglese, una dei sei figli del politico Sir Hugh Fraser e di Lady Antonia, scrittrice e storica che ha sposato in seconde nozze il drammaturgo Harold Pinter. Natasha è scrittrice e giornalista per varie testate internazionali. Ha anche lavorato per Chanel con Karl Lagerfeld. Oggi vive a Parigi con le sue due figlie.

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