Il passato, bello o brutto, ha comunque la sua importanza, ma per una come Marina Abramović, artista e perfomer di fama mondiale - come ci spiega quando la incontriamo in due momenti e in due città, Venezia e Firenze - “è un qualcosa di cui liberarsene come un serpente che fa la muta, per poter finalmente crescere”. “Ad un certo punto della propria vita, un artista fa riferimento a un particolare momento creativo ed esistenziale, riflette inevitabilmente sulla propria vita e, come in una casa, tiene solo quello che gli serve facendo pulizia del passato, della memoria e del destino”. Non è quindi un caso se per la sua retrospettiva italiana a Palazzo Strozzi, la prima che il museo fiorentino dedica ad una donna, abbia scelto il titolo “The Cleaner”, un repulisti esistenziale che riunisce oltre cento opere offrendo una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera, dagli anni Sessanta al Duemila, attraverso video, foto, oggetti, dipinti e riesecuzione dal vivo di sue celebri performance.

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Una parte del suo importante e a suo modo ingombrante passato è all'ingresso del Piano Nobile ed è rappresentato dal furgone Citroën, quello che lei e lo storico compagno Ulay usarono per tre anni in giro per il mondo. “Non avevamo mai soldi e a volte non sapevamo come mangiare, ma quella era la nostra casa”, ricorda fissandoci negli occhi. “D'inverno si ghiacciavano le maniglie, non sapevamo come aprire le portiere, più di una volta siamo rimasti fuori ma ci importava poco perchè eravamo felici e spensierati”. Mentre ci parla, la sua voce è ferma e decisa, il tono non è mai alto e tutto in lei - dai vestiti neri agli occhiali ad altri accessori sempre minimal - finisce col creare una sorta di piacevole armonia. “Vengo da un luogo oscuro, dalla Jugoslavia post bellica, da una dittatura comunista a capo della quale c'era Tito. Vivevamo circondati da una continua carenza di ogni cosa e il grigiore era ovunque, creando un'estetica del brutto assoluto, una sensazione di oppressione e di depressione”. “Sin da piccola - aggiunge - ho dovuto badare a me stessa perché i miei genitori avevano dei modi molto severi e crudi”. Quando aveva sei anni - come ricorda in Attraversare i muri, la sua autobiografia uscita due anni fa anche in Italia per Bompiani dedicato ad amici e nemici (“tanto sono intercambiabili”) - sua madre la picchiava se non era ordinata e suo padre la buttò giù dalla barca per farle passare la paura dell'acqua. “A furia di bere e scalciare - ricorda adesso con un sorriso - imparai a tenermi a galla”. “Quei maltrattamenti mi hanno fatto diventare quella che sono e a quelle regole umilianti devo il mio successo”.

Nel suo privato - a differenza di quello che si possa pensare vedendo una sua opera o assistendo ad una sua performance dove dominano il sadismo e il masochismo - non sopporta il dolore fisico. È per lei “un muro straziante e insopportabile”, e solo chi riesce a superarlo “arriva a un diverso stato di consapevolezza e ad una illimitata e nuova forma di energia”. Se quei lavori li ha portati e continua a portarli a compimento, lo deve al suo pubblico, “quello che mi fa vincere tutte le paure”. Percorrendo i due piani della mostra, curata da Arturo Galansino, autore anche del catalogo (Marsilio) e visitabile fino al 20 gennaio prossimo, emerge il suo iniziale senso di inadeguatezza e di insoddisfazione, sostituito poi nel tempo da determinazione, da caparbietà e da (tanta) creatività. Le performance degli anni Settanta sono quelle più estreme, come ad esempio Rhytm 10, una delle tante realizzate in Italia, “una totale follia basata su un gioco da osteria dei contadini russi e jugoslavi”. “Dovevo mettere la mano con le dita allargate sul tavolo e con l'altra mano colpire velocemente gli spazi tra le dita con un coltello affilato”, ci spiega. “Ogni volta che si mancava il bersaglio e mi tagliavo, dovevo bere e più bevevo, più c'erano possibilità che mi ferissi. Misi così in gioco la disperazione, il coraggio, l'idiozia e le tenebre come nella roulette russa”.

Non fu da meno Rhythm 4, proposta in una galleria di Milano con lei nuda che ispirava nei polmoni quanta più aria possibile da un ventilatore, mentre in Rhythm 0 si fece oggetto abbandonandosi in balia del pubblico che ebbe a disposizione settantadue oggetti (tra cui un'accetta, un coltellino, degli spilli, una pistola carica) da usare a piacimento, per sei ore, sul suo corpo. “Lì capii che il pubblico può ucciderti se vuole, e tutto questo accadeva ben prima di internet e dei social network”. “Avevo fatto esperienza di una libertà assoluta, avevo sentito che il mio corpo era senza limiti e confini, che il dolore non aveva importanza ed era inebriante e che l'essenza della performance è che il pubblico e l'artista realizzino l'opera insieme”. Negli anni, soprattutto con Ulay (Relation in Space fu la prima che fecero insieme), ne realizzarono molte, sempre estreme, come Imponderabilia!, sei ore in piedi e nudi uno di fronte all'altro, costringendo i visitatori a passare di sbieco scegliendo di rivolgersi a lei o a lui. Grazie al nostro Paese ottenne la consacrazione mondiale alla Biennale di Venezia del 1997. Invitata da Germano Celant, allestì la ritualità sacrificale di Balkan Baroque in un sottoscala del Padiglione Centrale ai Giardini, scioccando il pubblico e la critica, ma vincendo il Leone d'Oro. “Ero seduta sul pavimento, su una catasta di ossa di vacca: sotto ce n'erano cinquecento pulite, sopra duemila piene di sangue e cartilagini”, ricorda. “Per quattro giorni, per sette ore al giorno, sfregavo le ossa sanguinolente fino a farle diventare pulite... L'odore era tremendo come quello dei cadaveri sul di battaglia. Pulivo, piangevo, cantavo canzoni popolari jugoslave, raccontavo una storia... Era quello per me il barocco balcanico”.

Parallelamente a tutto ciò, in mostra troverete anche la ricerca che porta avanti da tempo su tematiche di meditazione e trascendenza come in Transitory Objects o Anima Mundi, ispirato al Vesperbild michelangiolesco. “L'arte - precisa - deve essere parte della vita, deve essere di tutti, e in in un lavoro, ciò che importa davvero, è lo stato mentale”. "La creatività – aggiunge - esiste da quando esiste l'umanità, da quando l'uomo ha disegnato sulle pareti perché si rese conto che non bastava solo il cibo per nutrirsi; essa è parte dell'esistenza umana, è essenziale come respirare”. Un artista, sostiene nel suo Manifesto della vita dell'artista, non dovrebbe mentire a se stesso o ad altri, non dovrebbe rubare idee altrui, dovrebbe sviluppare un punto di vista erotico sul mondo, non dovrebbe essere depresso e non avere autocontrollo sulla sua vita ma solo sul suo lavoro. I suoi lavori in mostra a Firenze sono sicuramente di grande effetto, ma ciò che manca in questa mostra è soprattutto lei. Marina Abramović è una donna e una artista, ma negli anni è divenuta lei stessa un'opera d'arte. Vedere delle sue o dei suoi “sostituti”, ragazze e ragazzi che ripetono quello che lei ha già fatto trenta, quaranta o dieci anni fa, non ha ovviamente lo stesso effetto. Per fortuna, nella storica performance The Artist is present - quella che fece al Moma di New York nel 2010, 8 ore al giorno per tre mesi senza bere e senza andare al bagno, la stessa dove si presentò a sorpresa l'ex compagno Ulay (il video è stato visto da milioni di persone) – ci sono solo un tavolo e due sedie vuote dove chiunque può sedersi. Probabilmente, il “non esserci” dell'artista è essa stessa una (nuova) performance. Le chiediamo se è vero e lei ride. “Per ora, la mia prossima performance sarà a Londra nel 2020, ma non dico nulla perchè sono anche scaramantica”.

Di una cosa, poi è certa: "continuerò a rompere le regole e gli schemi, perché è fondamentale". “Ciò che oggi mi interessa, è la mia eredità agli allievi del MAI (Marina Abramović Institute for the Preservation of Performance, ndr), dare ai miei ragazzi la possibilità di esprimersi al meglio visto che non sempre è facile". Qual è il rischio più grande per un artista? Ci fissa ancora per qualche secondo e poi fa: “La ripetizione, ma bisogna però sempre imparare dai NO che si ricevono. Per quanto mi riguarda, se qualcuno oggi mi dice di no, questo è solo l'inizio".