Lina Wertmüller, la donna dai titoli lunghissimi, i film di Lina Wertmüller che i nati 1988 scoprono solo facendo zapping d’estate, quando i canali rispolverano quintali di vecchie pellicole, o nelle notti insonni. Lina Wertmüller premio Oscar alla carriera merita più di un'ovazione un'enciclopedia del filmare moderno, del parlare reale e delle relazioni amorose da manuale. Motivo? Oltre ai i film più belli di Lina Wertmüller bisognerebbe premiare i suoi migliori modi di raccontare gli stereotipi italiani maschili e femminili (esasperandoli) a raccontare i luoghi comuni sulle classi sociali, e a passare l’evidenziatore su tutto ciò che (ancora?) distingue l’Italia del nord da quella del sud. Anche se poi qualcuno questi ritratti li ha un po’ travisati (ma ne parleremo dopo).

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Sofia Loren e Lina Wetmuller, 1990

Lina Wertmüller è nata il 14 agosto del 1928, a Roma, e sono stati anni spesi bene, i suoi, costellati da una sequenza di film imperdibili come regista e come sceneggiatrice. Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, questo è il suo vero nome, è la regista più rappresentativa dell’universo Italia e forse avrebbe meritato anche qualche riconoscimento internazionale in più. Discende da un’aristocratica famiglia svizzera: il papà, Federico, era uno dei giornalisti che durante il fascismo furono costretti a cambiare mestiere per non aderire alle regole del regime. Diventò avvocato, per cui Arcangelina è cresciuta in quella borghesia di cui poi si prenderà gioco nei suoi film. Testa calda, ribelle fino al midollo, si fa espellere da undici licei romani. Ma in uno di questi, il Cicerone, diventa amica di Flora Carabella, la futura moglie di Marcello Mastroianni. Insieme, a 17 anni, si iscrivono all’Accademia teatrale diretta da Pietro Scharoff e iniziano a intraprendere la carriera nel mondo dello spettacolo.

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Lina Wertmuller e Giancarlo Giannini, 1975

Dopo la scuola, la gavetta di Lina Wertmüller spazia fra generi diversi. Fa la regia degli spettacoli di burattini per la famosa compagnia di Maria Signorelli, lavora con grandi autori come Garinei e Giovannini, arricchisce il suo curriculum anche come autrice radiofonica e dirige la prima edizione di Canzonissima. Lavora anche come aiuto regista di Federico Fellini. Debutta dietro la macchina da presa, su un set cinematografico, con il film I basilischi (1963). Tutto questo, bisogna tenerlo sempre a mente, in un’epoca in cui il ruolo delle donne era ancora, principalmente, quello di mettere su famiglia e occuparsi solo di fare bene la moglie e la madre. Lina invece concilia tutto sposandosi con lo scenografo Enrico Job con cui avrà una figlia, Maria Zulima.

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Il primo impegno veramente iconico di Lina Wertmüller è come regista di Il giornalino di Giamburrasca, nel 1964, una serie tv musicale con Rita Pavone e tratta dall’omonimo libro, che spopolerà per decenni a ogni replica (se non l’avete mai vista, provate e capirete perché). Seguono varie altre prove di regia che promettono bene, come il musicarello Rita e la zanzara, ancora con Rita Pavone, fino ad arrivare al primo capolavoro di ironia e autocritica della società italiana: Mimì metallurgico ferito nell’onore. Il protagonista è Giancarlo Giannini, che diventerà l’attore di riferimento della regista. Insieme, in questo e altri film, regista e interprete rappresentano gli aspetti più grotteschi del maschio italiano, mentre Mariangela Melato, sia in Mimì metallurgico che poi in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974) declinerà quelli contraddittori attribuiti alla donna italiana.

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Wetmuller con Bradley Cooper

L’eclettica Lina Wertmüller si distingue anche per la lunghezza e la stravaganza dei titoli dei suoi film. Curiosamente, sarà invece una delle pellicole dal nome più corto a farla notare dalla critica internazionale guadagnandosi la nomination all’Oscar: Pasqualino Settebellezze (1974). Il protagonista è ancora Giannini, nel ruolo di un guappo napoletano che dopo una serie di vicende drammatiche e surreali si ritrova kapò in un campo di concentramento. Da allora, Lina Wertmüller ha girato decine di film, tutti con titoli chilometrici, ha ottenuto altrettante nomination ai premi internazionali più famosi, compresi Palma d’oro, Orso d’Oro e Golden Globe, ma senza riuscire mai a mettere le mani sulle fatidiche statuette.

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Nel 2004 ha ottenuto il più alto contributo statale per un film con Peperoni ripieni e pesci in faccia, protagonista Sophia Loren: quasi 4 milioni di euro, purtroppo non ripagati dal botteghino. Nel 2008, invece, dopo 44 anni di matrimonio, ha perso l’adorato marito Enrico Job. Quando si sono sposati, racconta Giorgio Dell’Arti sul suo catalogo dei viventi del Corriere, nell’ambiente del cinema si diceva: «Per sposare Lina ci voleva la pazienza di Job». Nel 2010 ha ritirato un meritatissimo David di Donatello alla carriera. Il suo ultimo lavoro è un cortometraggio del 2014, Roma, Napoli, Venezia… in un crescendo Rossiniano.

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I film di Lina Wertmüller, come già detto, hanno rappresentato in modo originale la società italiana, ma soprattutto il sessismo. Sembra chiaro che fra le sue tante missioni, Lina voleva svuotare il maschilismo del suo contenuto, mettendolo in ridicolo con le meravigliose macchiette di Giannini. Eppure, per molti il risultato è stato l’opposto. La fetta più retrograda e reazionaria della società italiana si è appropriata di alcune scene storiche e ne ha fatto il suo manifesto, senza coglierne l’ironia.

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Alcune sono in Mimi Metallurgico: quando le donne di casa, in Sicilia, lavano i piedi ai due maschi. Mimì che, innamorato della compagna comunista incontrata a Torino, ma comincia a vedere di buon occhio la società musulmana e la repressione delle donne: «Le mogli dei turchi stavano velate e loro potevano andare a combattere tranquilli». O quando le dice: «Devi imparare ad avere rispetto pe’ mia, tu sei nata per fare la maglia». Mariangela Melato, nello stesso film, all’inizio è la donna senza cuore che fa soffrire Mimì rifiutandolo, una delle più temute leggende maschili, e fa il gesto di spolverarsi il mento (“chisseneimporta”) quando Mimì minaccia il suicidio se lei non gli dona il suo cuore. In Travolti da un insolito destino, la Melato è la ricca borghese («bottana industriale») di cui si innamora il plebeo Carunchio, prendendoci la fregatura dopo aver dato sfoggio dell’intero repertorio del maschio possessivo. I film di Lina Wertmüller avrebbero potuto essere una bella lezione di civiltà agli italiani, impartita facendoli ridere di se stessi. Ma da quello che si legge oggi sulla cronaca, pare che l’effetto sia stato diverso. Un po’ come quello che Caparezza, un giorno, ha raccontato sul perché abbia semi disconosciuto Fuori dal tunnel, che non sente più sua visto che «a ballarla ormai erano proprio le persone che volevo attaccare». Peccato.