Torno da Bologna con un sorriso sardonico che parte da un orecchio, segue percorsi a me ignoti, e arriva all’altro. Me ne accorgo per caso mentre guardo il paesaggio che cambia dal finestrino del treno, quando ormai è sera, con le luci accese delle finestre che veloci diventano una. Tra le case c’è anche il mio riflesso bloccato, fermo, immobile. Come i volti serafici di quelli che finiscono i loro giorni mentre fanno l’amore. E come correvo questa mattina sotto il Portico di San Luca, con il sole che mi baciava una guancia e il fiato corto di chi ha un appuntamento con la felicità. Il regista Pupi Avati mi aspetta all’ingresso di un teatro storico della città. Lo seguo mentre mi fa strada e canticchia Unforgettable di Nat King Cole. Ha la figura morbida e rassicurante dei suoi ottant’anni appena compiuti. A ogni passo sfido la realtà con un pizzicotto immaginario: continuo a temere che mi suoni la sveglia. Forza, fatti coraggio, dannata ragazza timida.

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Francesco Quadri

Maestro lei ha fatto parte della mia infanzia. Sa che La casa dalle finestre che ridono era per me già un’ossessione quando ancora non avevo dieci anni? Colpa di mio padre, grande appassionato di horror all’italiana. Invitavo le amiche a casa, e tra una fetta di pane con la marmellata e l’altra, le iniziavo ai film del terrore.
Ben fatto.

Una sera però, telefonò la madre di una bambina, dicendo con tono piuttosto alterato che: “Valeria voleva per forza infilare il coltello nel braccio della nonna, invece che tagliare la braciolina".
Sono gli effetti collaterali.

Allora mio padre si arrabbiò moltissimo.
E le proibì di inquietare altre creature innocenti?

No, mi disse: “Possibile non tu capisca che sono bambine? Togli almeno il volume quando gridano, no?”
Mi ricorda il suo nome?

Scusi, le sto raccontando la mia vita inutile quando invece le storie preziose sono le sue.
Ginevra?

Sì, Signor Avati.
Lei è proprio un amore.

(Sorrido e abbasso lo sguardo. Intanto le mie guance sono diventate rosse come un cesto di ciliegie). Spesso nelle interviste parla della necessità di autoilludersi, di creare quella sorta di miraggio fantastico utile a vivere meglio.
Proprio così. Nella vita c’è un periodo brevissimo in cui riesci a conciliare la sopportabilità del vivere con la tua ragione: da adolescente puoi rimandare il confronto con la realtà a un’età più adulta. Quei sogni però, legittimati dalla tua inesperienza e ingenuità, vanno sempre tenuti in vita e alimentati nel corso degli anni.

Per farlo ogni tanto devi ingannarti, illudendoti.

Magari perché no, raccontandoti anche po’ di balle. Purtroppo, ai giorni nostri, ricorrere ad atteggiamenti rinunciatari è quasi d’obbligo. Vedo tanta gente che accetta di seguire professioni con le quali non ha niente a che spartire, facendo scelte determinate unicamente dalla necessità. Che ben comprendo, per carità, spesso non c’è alternativa.

Parlo di quei casi in cui si potrebbe volare, ma si rinuncia per paura di cadere.

Quando la vita lo consente, è meraviglioso poter dire agli altri chi sei anche attraverso un lavoro che coincide con quello che è il tuo talento. Questo è un tema che purtroppo la nostra società non frequenta. Nessuno che si preoccupi mai di come fare a essere, non dico felici, ma un po’ meno infelici. Pensa che bello se il paese, da domani, si prendesse cura finalmente di me, non con valutazioni oggettive, ma calzanti sulla mia persona. La felicità transita attraverso canali misteriosi e diversi. E io me ne sono sempre occupato, non riuscendo mai a raggiungerla totalmente, ma con la coscienza pulita di chi, se non altro, ci ha provato. Arriverò ai titoli di coda della mia esistenza dicendo che ce l’ho messa tutta per raggiungerla.

Quindi dovremmo fare tutti come lei, la sera prima di dormire. Chiudere gli occhi e pensare al discorso da leggere con voce tremante la notte in cui vinceremo il nostro Oscar.
Fantasticare su quanto di meglio ci possa accadere, certo! Ogni vicenda umana merita una conclusione così, con tanto di standing ovation. Ecco perché ad un certo punto della mia vita ho rafforzato il rapporto con la trascendenza. Chiedere a Dio di esistere come ultima e unica soluzione definitiva, quella salvifica, essenziale.

Intanto, ogni giorno, si ritrova negli occhi di sua moglie.
Dentro i suoi occhi ci sono io. E sento il bisogno forte e costante di sapere questo. Oltre a lei, non c’è nessun altro al mondo che possa garantirmelo. È l’unica testimone delle vittorie e delle sconfitte: nei fotogrammi della mia vita, da quelli più bui a quelli più luminosi, è sempre rimasta. Questo trascorso diventa un bene prezioso di cui andare orgogliosi, un sentimento collocato nella sua totalità in quella casella speciale che porta il suo volto.

Oggi lei è qui, al Teatro Celebrazioni, per una masterclass di recitazione organizzata da CS Cinema in collaborazione con LS Eventi. Nel 1997 si esibiva, proprio su questo palco, con Lucio Dalla e le sue tanto amate melodie jazz.
Era il 50esimo della band dove suonavo, arrivai a Bologna da Roma per l’occasione. Quella sera ricordo che suonai benissimo. E Lucio rimase particolarmente basito. Forse per il fatto che mancavo dall’orchestra da tanto tempo, si era creata in me una forma di “astinenza”, grazie alla quale mi trovai a fare una cosa talmente bene da meravigliarmi di me stesso. Feci un “All of me” epico, mi creda. Lui si stupì così tanto che dopo, per ripicca, non volle venire a cena con noi. Nessuna competizione, per carità, c’era tanto affetto ed era decisamente più bravo di me. Giusto un po’ di bonaria rivalità. Sa che non esiste un nastro con la registrazione di quella sera? Niente. L’unica volta in cui mi sono sentito all’altezza e forse qualcosina di più… non ho lasciato traccia.

Nella memoria dei fortunati che c’erano, sicuramente sì. Tra i suoi progetti futuri c’è l’idea di portare al cinema il libro di Giuseppe Sgarbi Lei mi parla ancora, un ricordo delicato e tenero che il padre di Vittorio ed Elisabetta ha dedicato alla moglie Caterina Cavallini, detta Rina, scomparsa nel novembre del 2015.

Lo sa che in cinquant’anni di attività non mi sono mai ispirato a niente che non fosse già scritto nella mia fantasia? Questo volta però è andata diversamente: mi hanno consigliato di leggere questo piccolo libro meraviglioso, certi che mi sarebbe piaciuto. E in effetti mi ci sono ritrovato. Quelle pagine sono uno strumento che produce autoillusione, nella promessa di trattenere una persona che sembra impossibile di aver perduto. Mi trovo nella condizione anagrafica e affettiva per sapere esattamente come visualizzare quelle parole. L’idea di coinvolgere Johnny Dorelli mi è saltata alla mente fin da subito. Un grande amico al quale sono legato da un profondo senso di ammirazione e riconoscenza. Sarebbe senza dubbio perfetto per interpretare quel ruolo.

Ha da poco terminato le riprese de Il signor Diavolo tratto dal suo ultimo romanzo omonimo edito da Guanda. E si riavvicina così al quel gotico rurale di inizio carriera.
Volevo tornare al cinema con cui ho cominciato a misurarmi da bambino, tra paura e sacralità. Il Signor Diavolo è una storia nera, il ritratto di una provincia non addomesticata in quel nord Italia intriso di religione e superstizione. Uscirà prossimamente ed è un film diverso da tutto quello che c’è adesso in circolazione. Sono curioso di vedere come il mercato accoglierà una proposta cinematografica così inedita e diversa. Io, nel frattempo, posso dirle che sono profondamente contento di averlo girato.

E io non so come dirle quanto colore ha regalato a questa giornata, che è già un ricordo diventato affetto. Torno a casa con le ali ai piedi e così tanta gioia da poterci vivere di rendita.