Quante volte noi donne abbiamo visto un brutto film, pur sapendo che fosse brutto, perché avevamo una cotta per un attore (o attrice)? Quante volte abbiamo accusato lo stesso attore di averci fatto vedere un film notoriamente brutto, come se ci avesse legato personalmente alla sedia? Ho un'amica che adora Oscar Isaac da tempi non sospetti e ricordo ancora quando mi ha detto, davanti a un caffè, serissima: “Non ce la faccio più”. Dopo aver visto Mojave aveva raggiunto il limite. In sua difesa, erano gli anni peggiori nella filmografia di Isaac, una vera sfilza di insuccessi innominabili in cui lui, poverino, dava lo stesso il massimo.

Quanto ti capisco, le dicevo, pensando a tutte le volte che avevo mandato giù storie che non mi interessavano, film per bambini, remake inutili. Tante, troppe, ma ne è sempre valsa la pena per l'attore che in quel momento era l'oggetto della mia ossessione, il frutto del mio desiderio. È valsa la pena per esempio vedere Peter Rabbit da sola, al cinema, a una proiezione infrasettimanale e in un orario insospettabile in nome della mia “stima” per l’irlandese Domhnall Gleeson. Dopotutto, se non si fa caso ai conigli parlanti e alla musica passé, Peter Rabbit sotto sotto è una commedia romantica come non se ne fanno più (durerebbe però 30 minuti, come dimostra il supercut che una buonanima ha messo su YouTube). E succede costantemente, perché sono cocciuta: l'ultima volta è stata con Malcom & Marie, visto per John David Washington, due ore gettate al vento - ne sono uscita con un debole per Zendaya e con qualche dubbio sul talento del Giovane Denzel.

A prescindere dal fatto che il film sia un capolavoro o una ciofeca, la conversazione sull’attorino del momento prosegue dopo la proiezione con screenshot, gif e qualche foto di paparazzi nelle nostre chat private, in questo angolino criptato che ci ritagliamo nell’etere per sentirci libere di dire “questo tizio mi scalda le mutande”. Il desiderio che ci portiamo a casa dopo il cinema può anche essere casto e romantico, un mix di ammirazione e affetto. Anche se non esplicitamente sessuale, è un desiderio profondamente umano, che ci accompagna nella vita: è quella bramosia di possedere la bellezza. Non provo particolare attrazione per Keanu Reeves, ma ogni volta che salta fuori una sua nuova fotografia con un abito nero dal taglio rilassato, il girocollo scuro e dei combat boots marroni e vissuti, mi si scada il cuore e scatta la condivisione nella chat apposita. È una forma di orgoglio materno?

Alle donne adulte è raramente concesso di essere apertamente vogliose, perché la tradizione le vuole confinate nel ruolo dell'oggetto del desiderio, impegnate piuttosto a sottrarsi dagli sguardi maschili. Ancora di più in una recensione di un film, dove un critico donna non indugerebbe mai sull'aspetto fisico degli attori per la semplice paura di essere etichettata come sgallinata (scelta vintage). Siamo stanchi del dibattito in corso su “donne, sesso e mondo del cinema”: post slancio doveroso del movimento #metoo dove è andata, concretamente, la conversazione?

La pubblicazione dell’antologia She found it at the movies, curata da Christina Newland (al momento disponibile solo in inglese), è un passo avanti nella conversazione e una boccata d'aria nei toni. Si tratta di una raccolta di saggi che rivendicano il diritto al desiderio femminile, soprattutto per chi di professione scrive di cinema. L'enfasi è sulle storie personali: ricordi adolescenziali, risvegli e/o ri-orientamenti sessuali, confessioni. C’è l’eterosessuale che va in crisi dopo aver visto Rizzo in Grease; c'è chi ci spiega come Robert Pattinson è stato un martire pop mentre

Timothée Chalamet, rubacuori du jour, è perfetto per l’era di Instagram; ci sono pagine e pagine -leggibilissime- su come la carriera di Meg Ryan sia andata in crisi dopo In the cut, un thriller erotico scritto e diretto da Jane Champion (non solo donna, ma anche artista acclamata). Anche se la maggior parte delle autrici fa riferimento direttamente al movimento femminista, tutti i capitoli esplorano con ironia come

il cinema si è infiltrato nelle nostre fantasie sessuali e perché nessuno ne parla abbastanza.

Se si volesse fare gli accademici tutto è già stato scritto negli anni Settanta da Laura Mulvey, colei che ha coniato il termine male gaze in Visual Pleasure and Narrative Cinema (1973). Tenendo come riferimento la psicanalisi di Freud e gli scritti di Jacques Lacan, il suo saggio, breve ma ancora citatissimo, descriveva l’asimmetria di punti di vista presente nei film e la centralità che ha lo spettatore maschio e il suo desiderio. Come in ormai quasi tutto, il saggio è stato ridotto a un paio di idee e poi storpiato nella cassa di risonanza dei social. Eravamo partiti con un complesso discorso su come le donne sullo schermo sono simbolo o minaccia della castrazione dell'uomo e siamo arrivati a credere che dica “tutti questi registi sono dei porci, ci servono più quote rosa e il problema, è risolto”. Per chi trova il tema interessante ma non ha voglia di prendersi troppo sul serio, She found it at the movies celebra il cinema e le donne allo stesso modo, ha un intero capitolo su gli uomini che ballano nei film e si legge facilmente tra una notifica di Whatsapp e l’altra. (Speriamo questa volta sia una foto di Keanu).