Monza, esterno giorno anzi pomeriggio piovigginoso e uggioso, una situazione tipicamente lombarda, piena di “g”. Isabella Ragonese cammina sul pavé traslucido, cerchiamo un bar dove parlare. Facciamo tappa in un tabacchi: «Buonasera, ce l’ha del tabacco senza le figure sulla busta?». Si riferisce a quelle foto di morti bianche e cancrene che ormai ornano qualsiasi prodotto da fumare. Le danno una confezione azzurro cielo. La aprirà con parsimonia durante la nostra intervista, per rollarsi parche sigarette.

La 35enne siciliana è in tournée insieme a Fabrizio Bentivoglio, Sergio Rubini e Michela Cescon con Provando… dobbiamo parlare, lo spettacolo nato appunto dalle prove dell’omonimo film di Rubini uscito nelle sale un anno fa, mentre in tv, su Raidue, la si vede con Marco Giallini in Rocco Schiavone, il commissario di cui è la vividissima moglie passata a miglior vita. Si gode il torpore e la noia delle giornate vuote in provincia, in attesa dell’uscita a febbraio de Il padre d’Italia, opera seconda di Fabio Mollo (che dalle riprese di The Young Pope di Sorrentino ha tratto il documentario The Young Pope - A Tale of Filmmaking), in cui recita al fianco di Luca Marinelli. Poi, a primavera, uscirà Sole cuore amore di Daniele Vicari, dove interpreta Eli, sposata con quattro figli, unica a portare a casa 800 euro in nero al mese lavorando in un bar a due ore da casa, sette giorni su sette.

Quanto è stata dura questa parte? Eli è un personaggio che mi rimarrà tutta la vita. Per la prima volta, rivedendomi, ho provato ammirazione. Non per me, ma perché ho visto Eli vivere al di là di me. Lei dorme tre ore per notte però riesce a incoraggiare gli altri, a non pesare su di loro. Un’eroina, non so, è stato come fare Garibaldi. La sua sembra una situazione estrema ma non è così poco comune. E in ogni caso, ci riguarda. Tutti viviamo il cambiamento del lavoro, oggi. Viene chiesto sempre di più e non ci sono regole in questo chiedere sempre di più. Non suona mai l’allarme che annuncia che siamo in riserva, e continuiamo ad andare a mille all’ora. E c’è solo da ringraziare per questo, perché il ricatto che sta sotto è che tutti sentiamo di poter essere sostituiti. Nessuno nei fatti ti dice più: «Ehi, in questo posto ci sei tu e per me è importante che sia proprio tu!».

Tre volte in cui è stato importante che sul set ci fosse proprio la Ragonese, per la sua stessa carriera? Mi trovo in una posizione che mi piace molto. Sono conosciuta ma non si dà mai per scontato che faccia le cose bene, o male... È come ricominciare sempre da capo. Comunque, Nuovomondo di Crialese e Tutta la vita davanti di Virzì. Crialese è piombato in Sicilia a cercare attori che parlassero siciliano, da sottotitolare, mentre io facevo i miei spettacoli teatrali girando col furgoncino per i festival, occupandomi come gli altri un po’ di tutto, delle luci, del trucco, di dare una pulita alla scena... E mi sono ritrovata, anche se con una particina (la ragazza siciliana che sbarca a Ellis Island e scopre che il promesso e mai visto sposo è così vecchio che potrebbe essere suo padre: la scena è su YouTube, ndr), dentro uno dei film italiani più belli degli ultimi anni. Da rivedere adesso, per l’attualità del tema immigrazione. Credevo sarebbe morta lì, poi è arrivato Virzì. È stato come fare tre anni in uno, ero l’unico personaggio a recitare con tutti gli attori: Ferilli, Mastandrea, Germano... Diversissimi, e ciascuno mi ha dato qualcosa. La terza tappa deve ancora arrivare, penso sempre che sia dopo.

"Il primo incarico" e "In un posto bellissimo" dove li mettiamo? Giorgia Cecere è l’unica regista con cui ho lavorato due volte, abbiamo un rapporto di sorellanza e amicizia. Con In un posto bellissimo (storia di Lucia, donna borghese ingabbiata nella sua vita di provincia che trova nel dialogo con un ragazzo immigrato una via d’uscita, ndr) è riuscita a dare una prospettiva nuova sul tema dell’immigrazione. Voglio dire. In questo momento se ci fosse una telecamera che ti riprende, non ti vedresti per quello che pensi di essere, ma per quello che non avevi previsto. L’occhio dell’altro fa paura, perché non ce ne accorgiamo, ma quando arrivano queste persone ci rimbalzano un’immagine di noi, gente magari infelice anche se ha tutto quel che serve e molto di più. Confrontarsi con quell’immagine non è divertente.

È questa la paura di chi vuole rimandare a casa tutti gli immigrati? Una parte della paura. Un’altra viene da... è capitato a tutti da piccoli: in famiglia avevi delle abitudini, poi andavi a casa dell’amichetto e scoprivi altre cose da mangiare, altri modi di mangiarle. Era il primo shock culturale perché prima credevi che come si faceva a casa tua si facesse in tutto il mondo. E magari scoprivi che il tuo amico andava a letto alle dieci, e allora andavi da tua madre e dicevi: voglio andare a letto alle dieci! Ecco, parte del problema è la nostra paura di come possiamo cambiare.

Per esempio, com’è che ne "Il padre d’Italia" hai i capelli rosa? Questo film sarà un colpo al cuore per tanti, e farà molto pensare. Racconta l'incontro tra due persone all’apparenza opposte, una cantante un po’ sbandata e un ragazzo con un grande amore per le regole. Fanno un viaggio da nord a sud e nel loro essere tutti e due un po’ sbagliati, si prendono cura uno dell’altro.

Film di riferimento? C’eravamo tanto amati, che sembra fatto ieri. E direi Le streghe di Eastwick solo perché è il primo della mia vita, forse avevo 5 anni, al cinema all’aperto. I miei erano molto tranquilli e mi facevano vedere di tutto senza censure, persino Shining che poi ha dato forma alle paure mie e di mio fratello. Certo negli anni 80 e fino all’inizio dei 90 l’America sfornava questi filmoni, io sono della generazione di Pretty Woman, va bene, poi ho raffinato il mio gusto però continuano a essere filmoni, Harry ti presento Sally è rimasto ancora insuperato, c’era quell’idea di cinema che adesso è rimasta solo a Tarantino, quel fatto che le battute le sapevano tutti, facevano parte di un vissuto condiviso.

A proposito di streghe, sei femminista? Be’, non la trovo una parolaccia. Il femminismo in Italia è stato l’unico movimento dal basso, non politico che ha ottenuto qualcosa. Certo ci dovremmo aggiornare sulle nuove insidie, e dovremmo integrare l’uomo in questo discorso. E cambiare linguaggio. Un classico è il regista che mi chiama e mi dice: “è la storia di quest’uomo così e così che ha una moglie e tu dovresti fare la moglie”. Non ho niente contro l’idea di interpretare una moglie, ma non mi piace “fare la moglie” del protagonista. Trovo sempre strano che se il film vuole raccontare una storia neutra, il protagonista sia un maschio. Se la protagonista è una femmina, diventa “al femminile”. Mentre noi donne riusciamo a immedesimarci in storie con tematiche maschili, e a commuoverci, e a dire “mi è piaciuto il film, e non diciamo che siccome parla di uomini e ci recitano uomini, allora è “al maschile”. E pensare che uno sguardo neutro davvero darebbe anche vita nuova alle storie da raccontare, che spesso sono trite e ritrite.

Cosa ti risulta strano, di questo nord? Da terrona non mi capacito che qui quando prendi il caffè se vuoi un bicchiere d’acqua lo devi chiedere. Non è che non voglia pagarlo ma il caffè è una cosa che... Prima ti bevi l’acqua per sciacquarti, se no il caffè non te lo gusti.

Altri piaceri? Piaceri? Passo molto tempo nel dormiveglia, è un momento mio quasi di meditazione dove mi vengono idee. Non capisco chi si annoia se resta inattivo, ho iniziato questo mestiere per la mia pigrizia, perché ha accelerazioni e anche pause. Non fare nulla mi dà momenti di grande felicità.

Non è noioso incidere audiolibri? L’attore ha sempre l’ansia di coprire le pause e qui invece le devi mettere, devi dare il tempo a chi ascolta di capire dove siamo, cosa accade, senza interpretare. Per imparare andavo a letto ascoltando gli audiolibri degli altri, mettevo il timer e... mi addormentavo come quando mi raccontavano le favole la sera. Ah che bello.