Circa un anno fa se n’è andata Cristina, la madre di Alfonso Cuarón. È accaduto durante la post produzione di Roma, nel momento in cui il budget era ampiamente sforato e il futuro del film un rompicapo ancora da risolvere. Un paio di anni prima Alfonso mi aveva spiegato il progetto che aveva in mente ma a grandi linee, e come al solito ero rimasto basito. Un film in bianco e nero, parzialmente in lingua indigena mixteca, ambientato in Messico agli inizi degli anni 70. Ok, ho pensato, è diventato matto. Quando poi si è messo a ricostruire pezzo per pezzo la casa della sua infanzia, proprio nella Calle Tepeji dov’è cresciuto nel quartiere Roma, recuperando gli stessi mobili, le suppellettili, la perimetria esatta, ho capito che la questione era piuttosto seria. Alfonso Cuarón, rinunciando pure al suo onorario, aveva scritto la sceneggiatura senza però permettere a nessuno di dargli neppure un’occhiata. Nessuno. «In verità a David Linde, l’amico e produttore di Participant, il primo a credere nel film, gliene ho consegnata una copia», confessa Alfonso. «Però in spagnolo. E lui parla solo inglese...».

Così ogni giorno arrivava sul set e spiegava a tutti quel che sarebbe successo. Sviluppo cronologico degli eventi, come nella vita vera. Centodieci giorni eccitanti, durissimi, vissuti sull’orlo di una crisi di nervi, però alla fine esaltanti. Una volta capito che cosa stava succedendo, mi è parso chiaro che non si trattava più soltanto di un film, quanto di una missione, di una magnifica e a tratti dolorosa operazione catartica. Cristina se n’era andata e Alfonso trascorreva ore dentro l’editing room osservando la stupenda Marina de Tavira, Sofia nel film, la sua madre virtuale, muoversi tra gli oggetti veri della sua fanciullezza. Sfiorava cicatrici mai completamente suturate. Poi l’ho visto seppellirsi per giornate intere davanti all’immane schermo della color correction, sfumando le ombre sul volto di Cleo, la sublime Yalitza Aparicio, l’alter ego di Libo, la donna di casa che lo ha praticamente allevato. Allora ho pensato che concedersi il lusso di ricreare nei dettagli la propria infanzia può essere meraviglioso e insopportabile, specie se al centro della storia c’è un padre che sparisce nel nulla, un uomo di cui Alfonso non ha mai parlato. Un sollevamento pesi dell’anima.

Senza contare che in quei giorni nessuno ancora sapeva se Roma sarebbe stato un capolavoro o un flop. Poi è arrivato Netflix, è successo quello che è successo e tutto il mondo è qui a celebrare un grande filmmaker. Il fatto che conosca Alfonso da molti anni mette in discussione la mia obiettività. Anzi, la nega, sarà bene confessarlo. Alfonso è l’amico che mi ha incoraggiato vedendo in me cose che ignoravo, ma è anche l’artista che ha cambiato la mia vita, spingendomi con energia verso un’etica del lavoro che non conoscevo. Ogni tanto penso che sia fuori di testa, ma ormai ho la certezza che viaggia tre mosse avanti a tutti. Prendendosi i rischi. Dopo l’Oscar per Gravity poteva fare qualsiasi cosa, con un assegno in bianco sulla scrivania. Dai kolossal catastrofici alle serie di spie gonfie di effetti speciali. Invece si è dedicato al film indipendente della vita, iniziando col metterci i soldi di tasca sua.

«Se ho scelto di fare proprio questo film è per una questione anagrafica. L’età gioca un ruolo chiave. Il mio amico Guillermo del Toro usa una metafora divertente. Da bambino mangi tutta la scatola di cereali perché il tuo obiettivo è di mettere le mani sul giocattolo in regalo. Ecco, Gravity è stata la mia scatola di cereali, il giocattolo era la possibilità di fare il film che volevo fortemente. Esattamente come lo desideravo, controllando ogni aspetto dall’inizio alla ne. È un film molto personale, parlo di esseri umani che ho amato molto, era il momento giusto. Alla fine di questa esperienza sono un uomo cambiato, ci vorrà tempo per capire come. Ho ristabilito una relazione forte col mio Paese, ho dovuto adeguarmi ai cambiamenti, anche dello slang, il chilango non è più quello che parlo io. Ho recuperato il mio passato utilizzando i miei ricordi, ma volevo anche che per quanto intimo, questo racconto riuscisse a parlare a tutti, che si trasformasse in una storia universale in cui le persone potessero riconoscersi, un racconto di grande umanità».

Quando ho messo piede sulla scena, nel 2016, si stava girando tra le altre lo spezzone esterno del cinema Metropolitan, pezzo di storia nel cuore di Mexico City, per il quale Alfonso ha fatto recuperare le vecchie poltrone. Ospite sul set in quei giorni c’era un giovane cineasta indiano, Chaitanya Tamhane, per il quale mi ero offerto di fare da traduttore. Trascorrevamo ore dentro la casa dell’infanzia e Alfonso discuteva con i collaboratori, infaticabile, di dettagli minimi: dal rimbalzo della grandine - che non era come se lo ricordava e dunque andava sostituita - alla luce, no al più minimo movimento di camera. Chaitanya, dopo novanta minuti in ascolto, mi aveva chiesto: «Quante scene stanno preparando?». «Una», gli ho risposto. E non dimenticherò mai la sua faccia sbigottita. Perché oltre a un bagaglio emozionale molto intimo, Alfonso porta dentro a Roma anche l’impronta del suo cinema, a cominciare dalle proverbiali sequenze lunghissime. «La verità», spiega Alfonso, «è che con Gravity ma anche con I figli degli uomini molti critici hanno enfatizzato questo aspetto del mio lavoro come se ogni volta io dovessi vincere la medaglia d’oro per il cut più lungo. Ma se rivedo Y tu mamá también ne avevo già fatto un certo uso senza che richiamasse l’attenzione. Non ho inventato nulla. Ai giovani studenti di cinema dico di andarsi a rivedere i film delle origini, da Lumière fino agli anni Venti è emozionante. Si scopre quanto già allora fossero in grado di sperimentare e creare effetti bellissimi e con mezzi ben diversi».

C’è poi la condanna inesorabile al confronto. I riferimenti con i grandi maestri del cinema. «Per Roma mi sono ripromesso di evitare qualsiasi referenza col passato. Io sono forse più un cinefilo piuttosto che un vero autore, così ho smesso di guardare cinema. Mi sono messo a leggere libri che non avevano nulla a che fare col Messico. Mi sono concesso solo Tarkovsky, però il suo libro Scolpire il tempo, magari mi è arrivata un po’ di ispirazione da lì... Ma volevo conservare una certa verginità. A volte alla fine di una scena sentivo qualcuno dire: “Che spettacolo, ricorda il tale...” In effetti era una scena venuta bene che però rifacevo immediatamente in un altro modo. Il fatto poi di girare in modo così poco convenzionale ha fatto il resto. Ci sono punti in cui non volevo il controllo, consciamente. Un esempio? La scena in cui Sofia, la madre, chiede ansiosa al figlio più grande di scrivere una lettera al padre che li ha abbandonati. Spiego a Marina de Tavira cosa voglio che dica e subito dopo vado dal figlio grande e a insaputa di lei gli dico che appena sentirà la madre chiamarlo, dovrà ignorarla e scappare al piano di sopra. Il risultato è una reazione frustrata di Sofia/Marina, perché il figlio non le dà retta mentre lei cerca di far sì che il marito torni. Ho adottato questa tattica per tutto il film e la risposta è stata meno recitazione e più essenza del personaggio. Non a caso attori non professionisti hanno reso in modo stupefacente. Yalitza assieme a Marina compongono una relazione straordinaria». Circolano molte leggende sul casting della formidabile Yalitza Aparicio ma anche di altri attori come, per esempio, l’équipe medica.

«Per trovare Cleo ci ho messo un anno. Cercavo qualcuno che le assomigliasse prima ancora di sapere se potesse recitare. Volevo la riproduzione il più fedele possibile. Yalitza l’abbiamo trovata a Oaxaca e dopo qualche difficoltà, l’abbiamo portata a Città del Messico. Non si fidava, aveva appena preso il diploma da insegnante e mi ha detto che avrebbe fatto il film perché non aveva altro da fare. Quanto ad altri ruoli, come quelli dei medici, era logico usare dottori autentici, la ginecologa, l’infermiera. Chi meglio di loro sa come muoversi in sala parto?». Per la prima volta da quando lo conosco, Alfonso Cuarón è completamente soddisfatto del suo lavoro. Capita di discutere di un suo film del passato e c’è sempre qualcosa che si doveva fare meglio. Non stavolta. Mi sembra pervaso dal lieve compiacimento dichi è sopravvissuto a un triplo carpiato per cui si era esercitato solo a memoria, eseguito di fronte al mondo intero.

«In passato ho commesso errori nel cercare di emulare qualcuno. Lo sbaglio più grave. Stavolta ho ascoltato la mia voce. Bisogna sempre ascoltare la propria voce. Se suggerisce qualcosa di intimo, allora il tuo sarà un lavoro intimo. Se è qualcosa di commerciale, sarà commerciale. Non importa il risultato, ciò che conta è restare fedeli alla voce che hai dentro».