Parigi. Era il luglio del 2012, io e le mie figlie stavamo camminando nella strada in cui abitiamo ed è passata una modella. Piuttosto magra, ma io frequentavo il mondo della moda e non ci avevo neppure fatto caso. Finché Allegra e Cecilia hanno cominciato con i commenti. A sentire loro quella ragazza era tremenda, avrebbe dovuto nascondere le sue gambe-stecchino sotto abiti baggy, ossia morbidi e oversize, invece di sottolinearle. Stavo per prenderne le difese, ma poi mi sono fermata perché, da madre appena separata, mi sentivo grata e sollevata. Alleluja e sia lodato il Signore: per le mie gemelle, che allora avevano dieci anni, il corpo di una donna doveva essere forte e sprizzare energia, non macilento, fragile e scheletrico.

La cosa mi aveva riempito di gioia. Ho pensato che non avrebbero sofferto come avevano fatto tante della mia età. Non avrebbero creduto di avere un corpo tutto sbagliato solo perché non riuscivano a infilarsi in una certa taglia di jeans, non le avrei beccate a pesarsi sulla bilancia due volte al giorno, ad autoinfliggersi diete estenuanti o a sfogliare riviste di moda per copiare le skinny, le magrissime, che ne affollavano le pagine. Sono felice di potere dire che, sette anni dopo, non sono cambiate: Allegra e Cecilia non aspirano a essere perfette né si sfiniscono per cercare di essere tali. Crescono e si evolvono così come sono, semplicemente essendo se stesse.

Naturalmente esistono zone grigie. Sì, camminano molto e vanno sempre dappertutto a piedi, ma una vera attività fisica non fa parte della loro agenda. Tutte e due fumano, anche se poco. E come le loro amiche preferiscono mangiare qualcosa in velocità da Mac Do (i francesi McDonald’s lo chiamano così) piuttosto che il pollo di allevamento biologico cucinato da me (pare che mi chiamino “Mamma Muesli”). Ma a parte qualche occasionale fase vegetariana (a un certo punto per sei mesi la carne è stata messa al bando) in casa nostra non si fanno diete. Di recente ho chiesto a Cecilia se frequentare l’università vuol dire stare in mezzo a studenti e studentesse tutti molto attenti alla linea e al corpo. «Direi di no», mi ha risposto. «A parte una ragazza che sostiene di essere grassa ma non fa niente al riguardo».

Che differenza può fare anche soltanto una generazione! Le diete hanno dominato la mia infanzia e adolescenza, mia madre, la famosa scrittrice Antonia Fraser, le seguiva ardentemente. Come tante bellezze degli anni 60 e 70, molto fotografate e di successo, lei cercava di migliorarsi, invece di accettarsi com’era.

Tutto questo non vuol dire che Allegra e Cecilia non siano umane, troppo umane. Come tutte le diciassettenni magari mettono su qualche chilo, ma non è un problema. Da parigine, sanno perfettamente che cosa sta loro bene addosso e che cosa no. Passano molto tempo a provarsi vestiti e a scartarli perché quella t-shirt è troppo larga o quei pantaloni con la camicetta corta non funzionano. Alla loro età lo facevo anch’io. Però con i vestiti non avevo quella loro sicurezza tutta parisienne e quel sapere d’istinto che cosa sottolineare e valorizzare, e cosa invece nascondere. Il mio lato anglosassone masochista a un certo punto rialzava la testa, convincendomi che solo se avessi perso uno o due chili sarebbe stata tutta un’altra cosa.

Un assurdo senso di inadeguatezza che oggi, grazie al cielo, non ho più. È successo dopo aver partorito, avevo 38 anni. Io, che ero sempre stata piuttosto formosa, d’improvviso ero diventata snella e tale rimanevo. Non mi ero messa a dieta, era cambiato qualcosa nella mia testa. O forse al mio eterno dramma del peso (perdere o prendere qualche chilo) si era sostituito quello di essere mamma di due bambine premature. Allegra e Cecilia sono nate alla 31esima settimana invece che alla regolare 37esima. E non dimenticherò mai il mio ostetrico che, dopo avermi fatto sedere, mi aveva detto: «So che fai parte del mondo della moda ma ora stai allattando e per amore delle tue figlie devi mangiare come si deve». Poi, tamburellando con la mano sul tavolo, mi spiegò che qualsiasi dieta era «fuori questione» e che appena il ciclo mestruale fosse riapparso, il mio corpo sarebbe «dolcemente, gradualmente tornato alla normalità».

Giusto. Ma io, invece, ho continuato a consumarmi come un cubetto di ghiaccio al sole. Improvvisamente riuscivo a indossare vestiti e jeans taglia 38 francese: un sogno. Era il mio viso però a pagare il prezzo. Invece di apparire florida e sensuale, con le guance belle piene, ero molto molto elegante ma un po’ tirata, a volte sfinita. Non ho certo intenzione di lamentarmi però, senza rendermene conto, il fiore della mia giovinezza era stato sostituito da una fisicità differente. Per Parigi ero perfetta. «Stai d’incanto, addirittura meglio di prima», mi dicevano nell’ambiente della moda. Mi faceva piacere, ma ero combattuta perché riaffioravano tutti i miei vecchi, amari ricordi di quando, a causa della mia taglia, non mi sentivo mai all’altezza.

Una mentalità malsana, sì, malsana, che purtroppo si era installata quando avevo sette anni. Ero diventata un po’ grassottella e, prima del matrimonio di una cugina, mi avevano messo a dieta. Una decisione sconsiderata che nei miei genitori era dettata dalle migliori intenzioni: «Sei la damigella d’onore», mi avevano spiegato, ma questa inadeguatezza mi avrebbe lasciato il segno per decenni. Perché il messaggio ricevuto era: sei grassa e ci vergogniamo di te.

Non ero l’unica a sentirsi umiliata per il proprio peso. Anche Natasha Richardson, un talento straordinario e un’attrice di cui si continua a sentire la mancanza, da bambina era una dolcissima palla di grasso. Ci raccontavamo le nostre esperienze e le comparavamo. Lei pareva messa peggio di me perché sua mamma, Vanessa Redgrave, era un’attrice molto famosa e questo voleva dire andare sui set e avere gli occhi sempre addosso.

Clio Goldsmithpinterest
Getty Images
Clio Goldsmith, prima modella e poi attrice, negli anni 80 è stata simbolo di una curvilinea bellezza sexy.

Oggi mia mamma, un po’ sulla difensiva, dice «però sei sempre stata molto carina». Ma era proprio quello il problema. Gli adulti non capivano perché continuassi ad abbuffarmi di caramelle. Oggi per fortuna i genitori sono più attenti agli aspetti psicologici e sono disposti ad andare al cuore del problema. La verità è che anche mia madre è stata un po’ vittima della tirannia della magrezza. Era uno schianto di bionda, una Julie Christie più alta e con più curve, quando invece andava di moda il fisico un po’ androgino. Pensate a Twiggy, la famosissima modella. Una follia. Così lei e le sue amiche facevano la prima colazione a base di pompelmo, non toccavano mai un avocado perché le avrebbe fatte ingrassare e si imbarcavano in diete assurde, come quella che si chiamava infaustamente Ayds, certe tavolette americane al sapore di caramelle mou che toglievano l’appetito. Oppure si infilavano in quegli incredibili aggeggi gonfiabili che arrivavano fino a metà coscia e, facendo sudare, avrebbero dovuto eliminare i centimetri di troppo.

Negli anni Settanta fianchi e cosce erano il problema della donna inglese. Il risultato era che mia madre, con quelle gambe lunghe e snelle che stanno d’incanto in un paio di jeans, i jeans si rifiutava di indossarli e si metteva solo e sempre dei vestiti: uno stile che è durato 45 anni. Dentro di me una vocina metteva in discussione quel suo perfezionismo. Certo, lei era e continuava a essere la personificazione dell’eleganza e dello stile bohémien ma i suoi erano abiti troppo da signora per me e per le mie amiche. Noi eravamo tipe molto attive, avevamo bisogno di pantaloni e volevamo emulare le modelle americane di metà anni Settanta che avevano visi e corpi pieni di carattere. Mi viene in mente Christie Brinkley, braccia, punto vita e sedere sodi e tonici, e anche Margaux Hemingway, una delle mie preferite, con quei tratti così particolari, quelle sopracciglia, le gambe infinite e le caviglie sottilissime.

Quelle prime top model sono state delle apripista, perché erano tomboy, maschiacci, e provocanti. Per un po’ anche Clio Goldsmith e Rachel Ward (modelle curvy poi diventate stelle del cinema) erano state un tipo fisico ideale. Ma tutto è cambiato quando nel 1979 ho visto Sigourney Weaver nel primo Alien. Ellen Ripley, il suo personaggio, era il mio genere di rockstar. Dotata di un potere senza tempo, forte, agile, magra e pronta a combattere per conquistare il mondo. Proprio come mi sentivo io.

NATASHA FRASER-CAVASSONI. Classe 1963, è un’aristocratica inglese, figlia di Sir Hugh Fraser e di Lady Antonia, scrittrice e storica che ha sposato in seconde nozze il drammaturgo Harold Pinter. Natasha è scrittrice e giornalista per varie testate internazionali. Ha lavorato per Chanel con Karl Lagerfeld e ha pubblicato il memoir "After Andy: Adventures in Warhol Land" (Blue Rider Press). Vive a Parigi con le sue due figlie. Per Marie Claire ha già scritto di come è stato crescere con una madre ambiziosa e dei favolosi party anni 80.