Di certi momenti conservo foto scattate senza macchina, immagini ben impresse nella pellicola della mia testa. L’ultima aggiunta all’album dei ricordi è quella di Dario Argento oggi sul portone di casa, al primo piano di un bel quartiere residenziale, che m’invita a entrare. Con gli occhi che ridono e un fare gentile, si scusa per il disordine che invece non c’è. Tanti invece, e ben disposti tra gli scaffali della libreria, i premi di una vita e i dvd in doppia fila. In ogni angolo il sole a mezzogiorno entra dalle finestre, senza chiedere il permesso. “Di respirare questo silenzio non potrei farne a meno, mi riporta al centro delle cose, è così mio” dice, mentre aspetta che mi sia seduta, per poi farlo anche lui.

In questo momento immagino di avere lo stesso stato d’animo di quando lei, più o meno alla mia età, ha intervistato i Beatles.
Emozionata tanto da non riuscire a mettere insieme le parole?

Esattamente. Cosa ricorda di quando faceva il giornalista?
È stato uno dei momenti più significativi della mia vita, un crescendo veloce che ricordo con piacere. Ho imparato la scrittura rapida, d’impulso, quel pensare che nasce e si traduce immediatamente tra le righe di una pagina. Poi, per una serie di circostanze fortuite, sono diventato prima critico cinematografico e poi sceneggiatore. Le mie storie funzionavano, venivano scelte anche da registi importanti, come Leone e Bertolucci.

Le capitava di andare sul set?
Spesso, e quella confusione delirante non mi piaceva per niente. Preferivo di gran lunga stare da solo sul mio foglio, e scrivere. Mi son detto che mai avrei fatto il regista, e invece.

E invece, fortunatamente è andata come è andata.
Avevo scritto la sceneggiatura de L’uccello dalle piume di cristallo. Mi pareva potesse funzionare, e in effetti andò bene. Pensi che l’idea è nata al caldo torrido di una spiaggia tunisina, dove mi ero beatamente addormentato con la testa al sole. Al risveglio sono rimasto in una sorta di torpore, dove visualizzavo il susseguirsi delle scene. È proprio in quel preciso istante, tra sogno e realtà, che vengono fuori le intuizioni migliori.

Quel film ebbe il successo che si meritava e giornalisti iniziarono a interessarsi a quel ragazzo così geniale. Il primo che scrisse di lei fu un giovanissimo Luigi Cozzi, che poi è diventato suo sceneggiatore.
M’intervistò vestito da militare, era in servizio qui a Roma. E ancora oggi è uno dei miei più stretti collaboratori.

Chi sono gli autori fondamentali che un suo braccio destro deve assolutamente aver letto?
Senza dubbio Edgar Allan Poe, per quello spirito unico e fantastico con cui riesce a toccare tematiche tanto spaventose. Poi H.P. Lovecraft e la sua fantasia sfrenata, rarefatta, ovattata. Era capace di creare un’atmosfera onirica unica. Il sogno torna, ed è molto importante, anche nei miei film, dove spesso gioco con le lentezze, intervallate da velocità improvvise.

Il sogno è importante tanto quanto la solitudine?
Amo la solitudine. Quando ne sento parlare in senso negativo, non riesco a comprendere come possa essere motivo di disagio. Pensi, ti lasci andare alla fantasia. Stare da soli è tanto fondamentale quanto meraviglioso. Quando scrivo i miei film, mi ritiro in alberghi piccoli e anonimi, dove spero nessuno si accorga che esisto, e lì rimango il tempo che serve. Cerco una chiusura con il mondo, quasi fosse una prigione. Trovo invece tanto ossigeno creativo. Profondo Rosso è nato in una villetta di famiglia vicino a Roma, dove nessuno andava più da anni. Avevano anche staccato i fili elettrici, non c’era più niente. Solo la scrivania e una finestra grande con un bel panorama: ho ancora negli occhi quelle valli, m’incantavo a guardarle.

Mi sta dicendo che il film più pauroso di sempre è nato in questo scenario bucolico?
Quando si abbassava il sole e rimanevo al buio, solo con una candela a scrivere le scene più cruente, non le nego che avevo una discreta paura.

Dev’essere fantastico riuscire a terrorizzarsi in totale autonomia. Scommetto che le piace viaggiare senza compagnia.
Adoro farlo, è sempre stata la mia passione. Ho girato il mondo: Sud America, Oriente, India. Partivo e rispondevo solo a me, vedevo il bello e non dovevo necessariamente verbalizzare, ché poi a parlarne si riduce tutta la magia dell’esperienza. In India mi sono avvicinato alla dimensione spirituale dei guru, veri medici dello spirito, e al fascino nella trascendenza. Di Haiti ricordo invece i riti voodoo, alcuni impressionanti, altri meno. Sento ancora il calore delle fiamme che si levavano altissime dalle cataste di legno e le “maman" che gridavano come degli ossessi.

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ALEX ASTEGIANO

Lei si fida delle predizioni?
No. Però una volta, in Brasile, mia madre incontrò una santona, che con un sigaro stretto tra i denti le chiese come stesse mio padre. Dopo poco arrivò una telefonata, l’avvertivano che Salvatore si era rotto una gamba in un incidente a Roma.

E agli alieni, ci crede?
Certo, esistono eccome. Fortunato chi ha l’apertura mentale e la sensibilità così spiccata da saperli vedere, riconoscere e accogliere. Credo fortemente nell’anima, nel contatto speciale che si crea tra certe persone.

Allora sicuramente avrà visto qualche creatura tanto strana da esser degna di nota.
Una volta ero in Messico, nella biosfera, la zona più fitta di vegetazione. Guidavo, e a un certo punto un essere non ben definito attraversò la strada, proprio davanti a me. Era altissimo, coperto di peli, mi guardò fisso negli occhi per poi scappare nella foresta. Dopo qualche minuto di comprensibile disagio, chiesi agli abitanti del vicino paese se sapessero qualcosa di quella spaventosa creatura. In effetti mi confermarono che una sorta di yeti, mezzo animale e mezzo uomo, si aggirava da quelle parti. Peccato che nessuno l’avesse mai visto. Io sì però, e anche bene.

Non posso fare a meno di pensare a quante storie meravigliose abbia raccontato la sera prima di dormire a figlie e nipoti. Cosa conserva e ritrova umanamente, invece, di sua madre e suo padre?
Mia madre Elda faceva la fotografa, era specializzata in ritratti femminili, tutte le più grandi attrici di un tempo sono passate dal suo obiettivo. Andavo a scuola vicino al suo studio e finite le lezioni, correvo da lei. Ho ancora nel naso l’odore dolciastro di un cerone particolare che usavano sul viso, per il trucco. Me ne stavo buono a aspettare che finisse di lavorare, in una piccola stanza in fondo al corridoio.

Lo stesso corridoio che torna in molti suoi film.
È vero. Insieme alle scale, alle finestre, ai teatri. In una scena di Suspiria c’è un carrello che corre lungo un corridoio, senza che succeda niente, avanza e basta. E pensare che proprio quella è la scena che crea nel pubblico più inquietudine. Ci sono spesso dei richiami alla psicoanalisi di Freud, agli aspetti più profondi del subconscio, a quando eravamo feti nel ventre materno, prima di nascere. Girare film è anche un modo di fare analisi.

E in fondo al corridoio, nello studio di sua madre, chi erano le attrici che si facevano ritrarre?
Le più importanti: Cardinale, Loren, Lollobrigida. Stava ore a regolare le luci per illuminare quei volti meravigliosi, e metterne ancora più in evidenza i pregi. Questo aspetto l’ho ritrovato nei miei film, una sorta di attenzione constante nel capire le donne, nel descriverle. Mentre cerco di tradurle mi trovo molto a mio agio, mi piace farlo. Rivedendomi, ho visto anche lei, il suo lavoro.

Di suo padre Salvatore, che ricordi ha?
Faceva il produttore, un lavoro che lo portava spesso lontano. Eravamo grandi amici, andavamo al cinema, a cena, parlavamo di tutto come si fa con gli affetti più cari, era prezioso ed estremamente importante per me.

Lei ha una grande passione per l’opera, che spesso sa far paura più di un film horror.
Dice bene, ci sono delle azioni sceniche terrificanti. Ho lavorato al Macbeth, alla Lucia di Lammermoor, esperienze bellissime. È stata mia nonna ad avermi trasmesso questa passione. L’accompagnavo al Teatro dell’Opera di Roma, spettava a me in quanto nipote più grande, seppur piccolissimo. Ne ho viste tante. E le ho amate molto, anche il balletto, con quei corpi. Le sono profondamente grato, ed è un pensiero che ritorna spesso.

In Horror. Storie di sangue, spiriti e segreti racconta episodi fantastici legati ai posti in cui è stato.
Sono città che mi hanno colpito, lasciandomi qualcosa dentro l’anima. Nel primo capitolo, dove sono protagonista, la storia si svolge agli Uffizi. Sale che mi sono rimaste nel cuore mentre giravo La Sindrome di Stendhal: prendevo la torcia, in piena notte, e approfittavo per vedere tutta quella maestosità pittorica. Provavo una grande emozione, quasi soggezione.

Sono racconti che si tradurranno poi in film?
Forse quello ambientato a Merano. Il bambino fantasma è un ottimo punto di partenza per una pellicola.

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Come darle torto. Dove le piacerebbe vivere, se non a Roma?
A Parigi. Mi ci trovo ancora molto bene, si respira costantemente aria di cultura. Ho iniziato proprio lì ad amare il cinema, mentre studiavo al liceo. Andavo sempre alla cineteca, dove vedevo almeno due film al giorno. Sono stati il mio pane: l’espressionismo tedesco, Bergman, gli horror americani degli anni ’40 e ’50.

Nella sua autobiografia Paura, racconta le esperienze di una vita. Quali sono stati i momenti emotivamente più faticosi da ricordare e trascrivere?
Probabilmente gli anni in cui avevo tendenze suicide. Rievocando certi passaggi sono riaffiorate diverse cose di quel periodo, che effettivamente è stato doloroso da rievocare. E pensare che volevo uccidermi in un momento apparentemente sereno, sentivo forte una sorta di attrazione verso la finestra della mia stanza, mi chiamava. Un amico medico mi consigliò di metterci un armadio davanti: “se devi pensare a spostarlo ogni volta, nel frattempo ti passa la voglia”, disse. Così è stato, e sono ancora qui. Ho sofferto anche nel ricordare la mia prima storia d’amore per un acuto senso di dispiacere, o quando mi sono separato.

Quello che riscriverebbe mille volte, invece?
Senza dubbio quando le mie figlie sono venute a vivere con me, quella sì che era felicità.