UNITE I PUNTINI E ARRIVATE ALLA FINE...

IN QUESTA ROMA COSÌ PICCOLA, così provinciale, così piccolo borghese, in questa Roma così berlusconiana, e non per il glamour da riporto, ma per l’attitudine a fare sempre qualcosa che non si dice, e a dire il contrario di ciò che si fa, la verità affonda un giorno dopo l’altro: ma, come i diamanti che nascono dalla compressione del carbonio, la volgarità e la paura generano nicchie che ne sono l’opposto, anche se come tutti i figli mantengono sempre almeno un’ impronta dei genitori. Chi ha visto il film di Pupi Avati Il papà di Giovanna, e quindi Alba Rohrwacher nella parte di Giovanna, può cominciare a capire quel che intendo. «Mio padre è tedesco, di Amburgo, mia madre umbra, di Montegabbione. Ha otto anni più di lui, è una donna stupenda. Faceva l’insegnante di lettere a Firenze, ha accettato di vivere in campagna con lui, che fa l’apicultore: ne ha accettato la stravaganza. Einstein diceva che le api sono la cartina di tornasole del nostro ecosistema: dopo quattro anni dalla loro estinzione il mondo finisce, perché termina il ciclo vitale generato dall’impollinazione. Per questo mi piacciono. Per dire, la vespa è più un parassita». «La vespa è inutile?». «Nessun animale è inutile». «Tu sei più vespa o più ape?». «Spero di essere più ape. Aspiro a essere un’ape». «Regina?». «No, io sono una contadina, vengo dalla campagna. Adesso capisco il valore di quella vita, è una risorsa a cui torno in continuazione, ma allora l’ho sofferta. Volevo fare le cose normalissime che fanno tutti, ma il paese più vicino era Poggio del Miglio, a cinque chilometri. Orvieto a trenta. Mio padre magari mi spediva due mesi in America a imparare l’inglese, ma poi per poter andare un pomeriggio in paese era un conflitto, e così facevo l’autostop in gran segreto e dopo ci litigavo, con i miei. E in paese ero emarginata, ero la figlia del tedesco, non è che fossimo proprio integrati». «Perché?». «Non te lo dico». «Ma fammi un esempio. In che senso non eravate integrati?». «Non ti faccio un esempio, perché non voglio parlarne».

ECCO. Questo è stato il primo dei non te lo dico. Ne arriveranno altri, e forse, se li collegate con la matita ne uscirà un disegno, ma già questo dice qualcosa. In fondo, che la famiglia Rohrwacher sia più o meno integrata con la comunità di Poggio del Miglio è un’informazione irrilevante per tutti, meno che per Alba, che la ritiene cruciale, e quindi, com’ è nel suo diritto, non ne parla. Ma così ci sottrae qualcosa che improvvisamente diventa rilevante, rilevantissimo, proprio perché nascosto. Ci lascia immaginare, ci spinge a farlo. Come vedrete, le informazioni sottratte saranno sempre più minuscole, più irrilevanti, ma la mappa delle omissioni diventerà sempre più interessante: quello che nasconde è meglio di quello che svela. «Comunque, scontrarmi con la famiglia è stato utile, perché il legame adesso è solido, limpido. È stato un conflitto ben diverso da quello di mia madre con suo padre, negli anni 60. Ero inquieta, adesso sono cambiata, molto. Non guardavo la televisione, alle nove di sera crollavo dal sonno. L’unica cosa che mi teneva in piedi erano i film di Bud Spencer. Mi sembravano avventure fantastiche, delle lotte impari in cui lui era sempre dalla parte giusta, e infatti sono rimasta malissimo quando poi l’ho visto sui manifesti di Forza Italia, con il pollice levato. Non ci potevo credere. E poi mi piaceva Madonna, facevo ginnastica artistica perché avevo una passione per il circo, ma non il circo in generale, mi piaceva proprio un circo francese, il Circo Bidoni: piccolo, solo di attori, nessun animale. Ma in camera avevo il manifesto di Madonna. Gli anni del liceo sono stati bellissimi, mi piacevano il greco e la fisica. L’Alcesti, per esempio. Ma già la lettura in metrica era bellissima, era come creare una musica, e l’alfabeto era come disegnare. Mi piaceva il coraggio di questi personaggi, li capivo, mi erano vicini, i sentimenti erano così moderni. E la fisica si avvicinava al greco, aveva qualcosa di letterario, i teoremi non erano puro calcolo: quell’andare a prendere il soggetto in fondo alla frase, e quella frase che può voler dire una cosa, ma anche un’altra un po’ diversa, e dove sta la verità? Parte del mio amore per il teatro nasce da lì, dall’amore per quelle storie, e per la tragedia. Poi mi sono iscritta a medicina a Orvieto, e siccome al pomeriggio rimanevo lì, andavo sempre al cinema, e ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto diventare un’attrice». «Perché?». «Per raccontare delle storie. Mi piacevano Elsa Morante e Colette. La Vagabonda di Colette. Ti dico un segreto. Colette prima di entrare in scena faceva un respiro e diceva: da questo momento non mi appartengo più, e tutto va bene. Ecco, anch’io, all’inizio…». «Lo facevi?». «La portavo con me. Il non appartenersi è una delle cose più belle, arrivare a darsi in uno spettacolo teatrale è come non subirsi, devi essere libero, non aver paura, e far accadere le cose. Così, mi sono iscritta a una scuola, un gruppo strampalato di dilettanti, e abbiamo messo in scena Il Povero Piero, di Achille Campanile. La sera della prima era il mio compleanno e il giorno dopo avevo l’esame di istologia. Dopo lo spettacolo sono rimasta tutta la notte con gli occhi aperti, non riuscivo a pensare che a quello, avevo l’esame e non m’importava, e m’è cambiata la vita. Per un po’ ho continuato a studiare i muscoli, le ossa e tutto il resto, perché ho un senso del dovere tedesco, ma poi non ho resistito, ho fatto domanda al Centro Sperimentale di Cinematografia. Mia sorella mi accompagnava a Roma, ai provini, ci tenevo tantissimo, e alla fine mi hanno presa: se non l’avessero fatto forse non avrei mai trovato la forza. E invece così, di punto in bianco mi sono trasferita a Roma». «Ma intanto, tutto il resto? La vita, i ragazzi?». «Non sono mai stata fissata con i ragazzi, in classe passavo per una molto timida. Ma se lo dici a casa mia, che Alba è timida, si mettono a ridere. La timidezza non è una costante. Mi posso imbarazzare in certi casi, in altri no». «Ma com’eri, da ragazzina?». «A diciassette anni ne dimostravo dodici. Sai com’è, dicono che i tedeschi crescono più lentamente». «Ti piaci?». «Così così. Vorrei essere più semplice, meno farraginosa ». «Sei coraggiosa?». «A volte sì, a volte no. Fisicamente, sì. La puntura dell’ape, o il topo, non mi fanno nessuna paura. Mi fa effetto il sangue». «Sei buona?». «Sì». «Allora dimmi la cosa più cattiva che hai fatto». «Ho tagliato un dito a mia sorella. Le ho detto di metterlo nello smielatore e poi di girare, e lei l’ha fatto. È successo un casino, siamo andate in ospedale così com’eravamo, in mutande e con gli stivali di gomma. Ma avevo dieci anni». «Perché l’hai fatto?». «Perché lei era troppo buona. Le andava sempre tutto bene». «Il primo bacio?». «Non te lo dico». «Perché?». «Perché poi a Orvieto lo leggono tutti, e non mi va». «Ma avrai avuto dei fidanzati». «Sì». «Tanti?». «No, sono state tutte storie abbastanza lunghe». «Quanto lunghe?» «Non te lo dico».

TAGLIA UN DITO ALLA SORELLA, ma poi non dice quanto è stata con un ragazzo. Curioso, no? Colette, che le ha insegnato il respiro, ha avuto tre mariti e un amante che era figlio di uno di quei mariti e aveva trent’anni meno di lei, recitava nuda nei music-hall, scriveva interminabili serie di romanzi e saggi e articoli in cui raccontava le sue avventure sentimentali e sessuali con uomini e donne, e grazie a tutto questo otteneva pure la Legion d’Onore. Ma certo, erano altri tempi. La fine di due secoli fa, l’ inizio del secolo scorso: tempi moderni, mica adesso. In Riprendimi, di Anna Negri, Alba Rohrwacher interpreta molto bene una moglie abbandonata, pateticamente gelosa e ossessiva, che finisce per consolarsi con un cameraman subito dopo aver fatto l’amore l’ultima volta con l’ex marito. Ho detto ad Alba che sembra un film paracadutato qui direttamente dagli anni Cinquanta, con un finale molto poco nobile, molto poco d’amore. Le ho chiesto cosa ne pensasse lei «Non posso dirtelo». «Perché?». «Ne ho già discusso con Anna, non mi fa piacere. Posso solo dire che nel film la protagonista ha un figlio, si comporta così perché le hanno levato quel nucleo, e io che non ho figli forse non posso capire». «Ma tu sei fedele?». «Sì, ma non so se la fedeltà è un valore. La fiducia è un valore. Ogni rapporto vive dell’unicità delle due persone: mi piacerebbe dirti che se lui mi tradisce è la fine, ma non ci riesco. Con ogni persona è sempre stata una cosa diversa». «Sei stata tradita?». «Non me lo ricordo. Ma scrivi che lo dico ridendo». «Che cos’è la nobiltà?». «Penso all’onestà, alla coerenza». «Tu sei coerente?». «Non sempre, e se mi accorgo che non lo sono, sto male. Una volta ho discusso con un’amica: predicavo una cosa, ma ne sentivo un’altra. Poi sono stata così male che ho dovuto richiamarla, chiederle scusa». «Hai lavorato con quasi tutti i migliori registi italiani. È perché sei brava?». «Ho sempre fatto i provini, e poi mi hanno preso. Chiedilo a loro». «Ma tu ti senti brava?». «Non l’ho mai pensato, anche perché non so cosa vuol dire. È un pensiero che leva forza. Non posso pensarlo, se no mi perdo. Ne Il Papà di Giovanna c’è uno sguardo tra me e Francesca Neri che spiega Giovanna. Ecco, quello sento che me lo ricorderò». «Il successo, hai idea di cosa sia?». «Me lo suggerisci?». «No». «Boh. Ho avuto la possibilità e la fortuna di raccontare storie che mi sarebbe piaciuto vedere da spettatrice». «Appunto. A parte questa fuffa, cos’è il successo?». «Ieri ero in autobus, ho incontrato una mia amica, una costumista, che non vedevo da molto. Lei si è seduta, abbiamo parlato e alla fine mi ha detto: mi ha fatto tanto piacere rivederti, soprattutto qui. Non avrei mai pensato che prendevi l’autobus». «Che cosa ti seduce?». «Quello che non mi aspetto. Un sorriso messo al posto sbagliato, uno sguardo che non riesco a capire». «Raccontami quando ti è successo». «Eravamo in metropolitana, con questa persona che non conoscevo neanche tanto bene, era luglio, faceva un gran caldo. È arrivata la mia fermata, sapevo che lui doveva scendere dopo, ma quando sono uscita è venuto con me. Ma dove vai, gli ho chiesto. Be’, mi faccio un pezzo a piedi, ha detto». «Li metti, i tacchi?». «Quasi mai». «Cosa ti piace degli uomini?». «Il modo di essere amici. Semplice, sano, diretto, onesto, senza orpelli, senza gelosie implose. Lo invidio». «Ma rispetto a te?». «Farmi abbracciare». «Ti piacciono quelli della tua età?». «Questo non lo saprai mai. Insieme con tutto questo fagotto di mistero». «Sei mai stata con una donna?». «Non te lo dico. Ma forse potrei innamorarmi, di una donna». «Ti è successo?». «Non te lo dico». «Hai mai visto un film porno?». «Non te lo dico». «Droga?». «No. Ma posso essere drogata di una presenza, di una persona. Posso annullarmi per questa persona». «Alla morte, ci pensi?». «Non riesco ad accettarla. Se ne sono andate persone a me vicine, che avevano finito un ciclo. Era molto doloroso, comunque. E fatico a pensare che una persona non esista più materialmente». «Sei religiosa?». «Io non sono battezzata. Ma in Gesù ci credo». «Quindi credi in una vita oltre la vita?». «Non te lo dico, proprio perché ci credo». «Guadagni tanto?». «Me ne frego un po’, dei soldi. Mi pago l’affitto, ci faccio dei viaggi, mi compro libri, cd. La televisione me l’hanno regalata a Natale. Una cosa mi piacerebbe fare: metterne via un po’ e prestarli al mio babbo che vuole fare una cosa in campagna». «Cosa?». «Non te lo dico».

QUI MI SONO ARRESO. Poi, però, sono andato a vedermi Il papà di Giovanna, e dopo, quand’ è finito e sono andato a sciacquarmi la faccia per levare le lacrime, volevo pensare certe cose; volevo pensare che in fondo un’ intervista è anche coraggio, non cambia il mondo ma a qualcosa serve, e non solo a promuovere qualcuno; e che va bene essere sensibili e riservati, ma rimanere così spaventati dal mare in cui si vuole comunque galleggiare, no, non va; un po’ di franchezza, e l’orgoglio dei propri sentimenti, così, anche per far capire agli altri; e se non lo fa chi è dalla parte giusta, chi sa usare le parole e l’anima, chi deve farlo, allora? Esporsi, capire che per chiedere prima bisogna dare, essere generosi di se stessi per amore degli altri: questo volevo pensare, questo volevo dire. Ma quello che mi veniva in mente invece era Giovanna nel film, e pensavo che se il prezzo per avere quella Giovanna lì erano tutti i non te lo dico, se era obbedire e tacere su cosa aveva fatto Alba Rohrwacher quando le avevo chiesto della morte e dei baci e tutto il resto, be’, allora andava bene così: mi conveniva comunque stare zitto, perché nel cambio ci avevo proprio guadagnato.