Dentro uno scatolone, in cantina, e scoperto per caso da una ragazza finita lì, mentre faceva la valigia per il weekend in montagna, alla ricerca dei suoi sci: si nascondeva così, il Paese che siamo stati. In piena vista, eppure celato per vent'anni senza che nessuno lo avesse mai davvero notato. Quando la ragazza in questione, Silvia Di Paolo, ha visto quei 250 mila negativi fotografici, ha immaginato un acquisto di suo padre Paolo, placido storico dell'Arma dei carabinieri e grande frequentatore dei bric-à-brac nella periferia della capitale. Quando ha chiesto lumi al genitore, però, ha scoperto che non c'era nessun mercatino vintage impolverato coinvolto nel mistero: quei provini, le diapositive ancora intonse, le aveva fatte lui, una vita fa. Un capitolo che aveva chiuso con serenità in uno scatolone, e del quale non aveva più voglia di parlare.

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Eppure, nell'obiettivo c'era l'Italia degli Anni 60, e tutti i suoi protagonisti principali: Lucio Fontana alla Biennale; Sophia Loren che scherza con Marcello Mastroianni negli studi di Cinecittà; Kim Novak, che stira delle camicie nella sua camera del Grand Hotel; gli sposalizi e i fidanzamenti e i balli dell'aristocrazia capitolina, Marina Cicogna ed Helmut Berger scandalosamente belli e imbronciati, come lo si può essere solo a vent'anni; Monica Vitti e Michelangelo Antonioni che leggono il giornale, camminando per le strade di Roma; Yves Montand e Simone Signoret che si baciano all'Aventino; e si baciano anche Federico Fellini e Giulietta Masina, nel corridoio di qualche hotel di lusso.

Testarda, Silvia ci ha messo altri vent'anni, a convincere il padre a portare alla luce quei reperti in bianco e nero. La sua opera magna, 250 fotografie selezionate dall'immenso archivio, oggi risplende al MAXXI di Roma, nella mostra Paolo Di Paolo Mondo perduto, appena inaugurata e visitabile sino al 30 giugno. A essere preda della fascinazione di quel passato, c'è anche Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, e principale sostenitore della mostra. Oggi, Di Paolo è un 94enne a cui fa un po' difetto l'udito, ma non di certo la lucidità galante con la quale racconta, con dovizia di dettagli, ogni singolo scatto, mentre passeggia tra i corridoi del MAXXI, all'inaugurazione dell'evento. Maglione a collo alto senape, mocassini con il morsetto, ha tra le mani un bastone che non usa poi molto, ma aggiunge fascino alla sua figura affilata.

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Natali di Larino, piccolo comune del Molise che lascia a vent'anni per studiare Filosofia alla Sapienza, Di Paolo è riservato: lo è stato moltissimo durante tutta la sua vita, persino con la figlia, che nulla sapeva del suo passato, e lo è stato sul lavoro. Molti degli scatti esposti a Roma, infatti, non avevano mai visto la luce, in ragione di un reciproco rispetto tra lui e i soggetti inquadrati, che del fotografo arrivato dalla provincia, si fidavano. Nessuna foto è rubata, Di Paolo non ne aveva bisogno.

«Oggi, guardando queste foto, provo un senso di pudore, come 60 anni fa», spiega. «Vedere di dominio pubblico quelle immagini, quelle testimonianze di un rapporto spesso intimo, personalissimo, con personaggi con i quali ebbi occasione di incontrarmi, anche per brevi momenti, mi dà la sensazione di tradirne lo spirito:

è come fare pubblicamente un'autopsia dei sentimenti

».

Un esempio lampante sono le immagini di una giovane Oriana Fallaci: Di Paolo è a Venezia, di buon'ora si reca sul Lido, alla ricerca delle dive arrivate in laguna per il Festival. Ma delle dive non c'è l'ombra, mentre, stesa a prendere il sole su un telo, c'è la giornalista toscana. «Non ci sono, Paolo», lo apostrofa lei, canzonandolo per quelle speranze deluse «ma se vuoi posso fare io da diva per te». Il risultato è in scatti nei quali, la scrittrice passata alla storia per la sua immagine corrucciata, la sigaretta costantemente tra le dita, il profilo aquilino rivolto a qualche scenario di guerra, gioca muovendo le onde, in costume da bagno, sul volto un sorriso malizioso e divertito. Di Paolo scatta, ma quelle foto, pur nate dal suggerimento della stessa Fallaci, non le pubblicherà mai.

Un atteggiamento connaturato alla sua professionalità, nata tra i corridoi de Il Mondo, testata fondata da Mario Pannunzio, allievo del pittore e giornalista Leo Longanesi, e fondatore poi del Partito Radicale. Su quelle pagine – difficilissime da leggere, ma che tutti amavano sfoggiare la mattina al bar il venerdì – scrivevano Einaudi, Croce, Moravia. «I detrattori, in effetti, dicevano che il Mondo avesse più scrittori che lettori », ricorda Di Paolo divertito «ma ogni venerdì andava costantemente esaurito. Dava arie da intellettuale ai giovani studenti di Filosofia, ai pariolini, ma Pannunzio capì che i testi non erano più sufficienti. C'era bisogno di immagini, che informassero tanto quanto le parole. Nel frattempo, alcuni miei amici, tra i quali la pittrice Gilberte Ossola, mi avevano proposto di andare da lui, ritenevano i miei scatti all'altezza della testata. Seguì il loro consiglio, anche se io, come i fratelli Sansone, anche loro poi fotografi per Il Mondo, dell'arte fotografica non ne sapevamo davvero nulla, a livello tecnico. Ad affascinarci, però, era il potere narrativo che da quegli scatti scaturiva».

E di questa sua attitudine ”da dilettante” – anche se è difficile immaginarlo come tale, guardando alle pareti del MAXXI – Paolo Di Paolo fa vanto. Nella sua personale visione delle cose, la mancanza di professionalità non corrispondeva a una carenza di etica lavorativa, ma con la fortuna di poter esercitare con una certa dose di libertà una professione della quale era innamorato, a dei livelli ai quali non si sarebbe mai aspettato di avere accesso. Ed infatti, oltre a Il Mondo, collaborerà con altre riviste, da Oggi, a Successo, che gli commissioneranno reportage all'estero, da Tokyo ai paesi dell'Europa dell'Est, da New York all'Iran, dove ritrasse il Pascià, passando per la Turchia. Non mancano gli shooting di moda, frutto della sua collaborazione con Irene Brinn per Harper's Bazaar – e in effetti alcuni suoi scatti delle attrici, una su tutte una sensuale Charlotte Rampling avvolta nel marabù, le lunghe gambe accoccolate su un divano in Sardegna durante una pausa dal set del film Sequestro di persona, hanno lo stesso potere seduttivo delle immagini di Helmut Newton.

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Più che del resto dell'emisfero, però, Di Paolo è stato maestro nel raccontare lo Stivale, nei momenti di lutto collettivo, come la contadina ritratta durante i funerali di Palmiro Togliatti, e quelli di gioia familiare: dalle spose che passeggiano sulla costa abruzzese agli uomini di ritorno da lavoro, addormentati sul treno della linea Termoli-Campobasso, contadine che vangano i campi di Lucera e meccanici al lavoro nelle officine Ferrari di Maranello. A suo agio con tutti gli strati della società, unico fotografo invitato al ballo Pallavicini, per il quale affitta un frac, continuando a sentirsi un provinciale capitato lì per caso, solo una volta ammette di essersi sentito in difficoltà.

«Ero in provincia di Benevento, a Forchia, m'imbattei in un bambino che mi creò imbarazzo: difficile immaginare una povertà maggiore, un maggiore stato di miseria, un tale grave stato di salute così percepibile. Fotografarlo mi parve immorale, troppo facile, gratuito. A un certo punto non potei sottrarmi, quando quell'essere inerme assunse un'aria di orgogliosa sfida: impotente nel sottrarsi al mio obiettivo, si impettí guardandomi impassibile. Fai pure – sembrava volesse dirmi – non posso nemmeno scappare perché sono malato.

Fu l'unica volta che sentì il dovere professionale di non rinunciare a un documento terrificante

».

La sua sensibilità di fronte alla malattia, forse, colpirà al cuore anche Anna Magnani: l'attrice viveva da anni nell'incubo di proteggere dai paparazzi suo figlio poliomielitico. «Ricordo che mentre lei era a Roma per lavoro, uno di loro riuscì a scattare il ragazzo, nella loro villa di Punta Rossa. Era furiosa, sapeva essere una donna molto violenta. Riuscì a trovare il fotografo, il giorno dopo si presentò alla porta della redazione: lo minacciò, urlando. I negativi le furono restituiti, ma la situazione era divenuta ingestibile », ricorda Di Paolo. Fu allora che, tramite una comune amica, Paolo fu chiamato nella villa della Magnani: lei si fece trovare con un costume nero, il cane, e suo figlio, che era in acqua e nuotava benissimo. «Sei tu il fotografo? Ahò, datte da fà». Il risultato sono degli scatti di infinita tenerezza, l'attrice che abbraccia il figlio Luca sugli scogli, nello sguardo l'aria serena eppure decisa, di una donna capace di vivere, e farsi ritrarre, alle sue condizioni.

Empatico, dote che nessun altro fotografo dell'epoca svilupperà quanto lui, ritrae Tennessee Williams al mare a Tor San Lorenzo, Ezra Pound nella sua casa a Spoleto, Alberto Moravia in costume a Fregene, il re Umberto di Savoia a Porto, illuminato dal sole che filtra attraverso le fronde di un sentiero boschivo, e che pare una luce divina, così come Piero Manzoni, in una luce molto meno divina, quella asfittica e giallognola del bar Jamaica di Milano, dove si riunivano i maggiori artisti – spesso per coincidenza, anche molto squattrinati – degli Anni 50. Le foto sono in bianco e nero, ma la sua bravura è tale da far immaginare anche la precisa gradazione cromatica.

Insieme al giornalista Sennuccio Bennelli, realizza per il giornale Tempo, tra il 1961 e il 1962, una serie di fotografie denominate Gli incontri impossibili, che mettono a colloquio personaggi tra loro antitetici: appaiono così Alberto Moravia seduto sui resti di una colonna romana, e Claudia Cardinale che lo ascolta rapita; Eduardo De Filippo e Dacia Maraini; il profilo di Gina Lollobrigida dietro il quale si scorge lo sguardo inquisitore di Giorgio de Chirico; Salvatore Quasimodo che, dietro un muro di rampicanti, guarda, non senza compiacimento, Anita Ekberg.

«Non riesco a individuare un personaggio che mi ha creato problemi di empatia. Esisteva invece il timore che taluni personaggi, che dovevo necessariamente fotografare, reagissero negativamente. Fu il caso dell'inchiesta sui penitenziari, quando dovetti fare la conoscenza con i più famosi protagonisti della malavita nazionale. Li ho incontrati tutti. Dal “mostro di Nerola” al “biondino di Primavalle”, da Liandru, re della Barbagia, ai membri della banda Giuliano, fino all'autore del “delitto dell'alabarda”. Erano individui dai quali scaturivano impulsi magnetici soltanto accostandoli, come ha codificato Mesmer nel 1700 con la sua teoria degli impulsi animali. Uno di loro, il sardo Pes, ergastolano, mi agghiacciò soltanto fissandomi con lo sguardo. Lui non voleva essere fotografato: me lo disse senza dover proferire parola. E io non ci provai nemmeno».

Quando Il Mondo chiude, però, nell'8 marzo 1966, Di Paolo vede quel mondo antico di valori nei quali credeva, sgretolarsi. La tv brucia le notizie dei giornali, arrivano i paparazzi, «anche se devo spezzare una lancia in loro favore», asserisce Di Paolo. «Non sono mai esistiti, fu Fellini che ne sviluppò nella sua opera cinematografica gli aspetti peggiori, creandone un modello facilmente assimilabile. In realtà erano una massa di giovani esordienti in cerca di affermazione economica e privi di remore». Certo, però, quando si presenta dal direttore di un importante settimanale a Milano alla ricerca di una nuova collaborazione, ciò che si sente rispondere lo sconcerta: «lei è introdotto in molti ambienti, con noi ha le porte aperte: si faccia sentire quando ha tra le mani qualcosa di piccante. Quelle porte che lui voleva aprirmi, io preferì chiudermele alle spalle. Si provi a immaginare un attore di teatro abituato a recitare Pirandello, Brecht, Shakespeare, Ibsen; se i teatri sui quali si è esibito con impegno chiudessero contemporaneamente, cosa gli resterebbe da fare? Recitare davanti allo specchio? Io, a quel punto, avrei potuto specializzarmi negli autoritratti».

Una fortuna che, sull'opera di Paolo Di Paolo, sia stato, di nuovo, alzato il sipario.