Cosa potranno mai avere in comune un bikini all’uncinetto e una torta alla doppia crema, a parte il fatto che entrambi, per differenti motivi, ingrassano? È presto detto: sia l’uno che l’altra sono arrivati alla fama internazionale grazie all’uso intensivo che ne fece Brigitte Bardot, in località Saint-Tropez, nel corso degli anni ’50. Altrettanto semplice è capire come sia accaduto che anche la torta – e non solo il bikini – nel tempo sia diventata uno dei migliori simboli di una stagione irripetibile per il rapporto tra bellezza femminile e libertà di manifestarla.

Il dolce identitario della Costa Azzurra, la Sachertorte della Riviera Francese, si chiama Tarte Tropézienne. E come l’austriaca è rigida, grave, indeformabile, e tende a concedersi un unico momento di frivolezza in quella confettura di albicocche che fa capolino, dopo le prime forchettate, tra l’oscurità del cioccolato che l’accerchia; così, la torta francese è luminosissima, tutta frizzi e lazzi, non conosce accenno di serietà, e tutta la sua essenza è lampante al solo suo mostrarsi aperta e stracolma di bontà, prima ancora che l’assaggiamo.

Il mito fondativo della Tropézienne narra di un pasticcere di origine slava, Alexandre Micka. Nel 1955 aveva aperto la sua boulangerie-pâtisserie in una Saint-Tropez che, allora, era un paesello intitolato al santo pisano Torpete, non propriamente il martire più à la page dell’agiografia paleocristiana. Ogni giorno, con modesta assiduità, Alexandre preparava un dolce che gli aveva tramandato sua nonna:

una grossa grassa brioche polacca, farcita di due diverse creme e ricoperta di cristalli di zucchero

Finché non avvenne un fatto che ebbe del miracoloso. Nel ‘56 Roger Vadim sbarcò a Saint-Tropez per girare Et Dieu créa la femme, film celebre, oltre che per lo sdoganamento definitivo del bikini in esterno giorno, per la scena madre del cha cha cha, in cui i due protagonisti maschili appaiono incazzati come a un pranzo di Natale e una sola fanciulla, invece, danza a piedi nudi e a cosce scoperte, in barba ai loro fuochi incrociati di gelosia, felice come una Pasqua. Quella fanciulla era Brigitte Bardot ventiduenne. A questo punto, le versioni variano leggermente. Alcune dicono che il cast e le maestranze del film cominciarono semplicemente ad abusare del pane e dei dolci di Micka. Altre che il pasticcere divenne il catering ufficiale della produzione. Quello che è certo è che nessuno si invaghì della torta più di Brigitte Bardot: ne mangiava a qualunque ora del giorno e della notte finché, d’accordo con Alexandre, la battezzò prima Tarte de Saint-Tropez e poi, più laicamente, Tarte Tropézienne.

A quell’epoca, prima di diventare una fervente attivista per i diritti degli animali e, ancora più tardi, essere pluricondannata per incitamento all’odio razziale, Brigitte doveva apparire davvero come la gioia di vivere incarnata: la quintessenza di ogni perfezione psicofisica concepibile all’inizio della seconda metà del Novecento. Una sacerdotessa immanentista fermamente convinta (forse agevolata dal modo in cui le cadevano i pantaloni alla caprese) che il futuro fosse stato inventato solo per sciupare il presente. Un’Oceanina delicatamente spiaggiata, per qualche capriccio cosmogonico, in quel villaggio di pescatori, ma destinata a essere catturata da una rete fatta di pellicole e copertine patinate.

Di rado è stato possibile un così perfetto ritratto di signora per mezzo di un dessert: zucchero su polisaccaridi.

Brigitte è la personificazione della Tarte Tropézienne, così come la Tarte è la Bardot fatta dolce.

Quella crostata senza bordi, quella torta senza confini, col contenuto che spazia giusto un po’ oltre il limite imposto dalla sua forma (proprio come in un bikini), è una piccola stella d’asporto, bionda e sfavillante. La sua pasta, alveolata e leggerissima, è soffice come una spugna di mare. La sua crema è densa, e sa di vaniglia e fiori di arancio, di preliminari e di sposalizio insieme. Il segreto di una Tropézienne perfetta è proprio nel contrasto tra pasta e crema, che deve essere deciso ma non esagerato: consistente e cedevole, i due principali stati della materia pasticcera, così come esterno e interno, devono un po’ bisticciare, ma alla fine concordare su tutta la linea. (È vero che essere Brigitte Bardot, per smaltirla, non è necessario, ma aiuta. Ma resta una fandonia la regola per cui chi mangia una fetta di Tropézienne all’ora di pranzo deve aspettare almeno un paio di mesi prima di poter fare il bagno in due pezzi).

Il bikini tricot completò il quadro. Sugli scogli, Brigitte sembrava duttile ed elastica almeno come un polpo. Più tardi, in tenuta da falò, straripava dalla piattezza dello schermo, travolgendo nel processo qualunque altro interprete o animale marino circostante, nonché generazioni successive di modelle di moda mare che, a questa Prometea dell’ombelico, non hanno potuto che opporre semplici addominali. Si smise di considerare il bikini un luogo impervio, dove osavano solo le fisicate più risqué, e quell’indumento si confermò l’amore estivo ricorrente delle donne occidentali che avessero voglia di godersi il mare senza i limiti imposti dall’abbigliamento balneare di una vita precedente. Vale a dire, praticamente, tutte.

È una visione della donna e delle attrattive femminili che prefigura l’universo della canzone yé-yé: quel dire sì due volte alla vita che arriva in darsena e bussa alla porta della tua cabina. Tarte e bikini insieme sono un dittico che omaggia la bellezza femminile presa nella sua natura mutevole e pastosa, all’interno di un vestito attraente e indulgente, sebbene incrostato di cristalli di zucchero all’apparenza acuminati, ma che si sciolgono in bocca in pochi secondi, se si ha la ventura di potervi accedere.

Almeno in quel film di Vadim, sembrava arrivata una grande novità: era la donna che sceglieva l’uomo che più le piacesse, di scena in scena. Cominciava una nuova rivoluzione copernicana, in cui la donna-sole era al centro della galassia e i vari pianeti (a partire da Jean-Louis Trintignant) le ruotavano attorno. La Tropézienne era figurativamente e organoletticamente quell’astro, che metteva in crisi un mondo che non aveva fatto i conti con Brigitte Bardot su un gozzo all’ora dell’aperitivo, quando il sole vero, vista l’ora, è in procinto di tramontare, e i raggi emanati dal biondo saranno ancora per molte ore in piena attività.

Et Dieu créa la femme cambiò per sempre, in un colpo solo, la storia del costume e del beachwear, che divenne, per eccellenza, la categoria di indumenti da indossare per nascondere qualcosa solo per mostrarlo meglio. Torta e bikini sono le prime avvisaglie di una terra promessa di incoscienza calorica e di eleganza noncurante. Saint-Tropez divenne la capitale mondiale del bikini e Brigitte, in un colpo solo, la prima fashion blogger e la prima celebrità foodie ante-litteram.

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Per molti versi, il credo di Brigitte è ancora attuale. È l’ideale delle ragazze francesi di estrazione marittima, che tutto il mondo ha cercato di imitare. Un look che non è completo senza la nuance assicurata dalla spolverata di sabbia sul ginocchio, che non è detto vada via prima di sera, per ragazze che non guardano in faccia alle mode: un po’ perché le determinano loro; un po’ perché passano tutto il poco tempo che hanno disposizione fuori dall’acqua per correre ad appuntamenti imprecisati, di cui nessuno conoscerà mai i dettagli, sempre con un occhio ai marpioni che le vogliono rimorchiare e un altro agli stilisti che vorrebbero rapirle, per condurre in remoti atelier di città, e studiarle come tope da laboratorio. Mai ostentazione di tagli esotici, mai rendicontazione di ricchezza di tessuti. Come per gli abiti in Vichy, in cui BB si risposò nel 1959, i cui quadretti rosa sono ancora oggi il peggiore incubo del beige del tartan Burberry.

“Se non hanno immaginazione, che mangino cornetti o indossino tanga”.

Brigitte Bardot celebrava, in modo poco liturgico e un po’ sovversivo, uno stile ottenuto non solo senza sforzo, ma anche quasi remandosi contro, sbuffando per la fatica in pattino; eppure sempre così rilassata che, a tratti, sembra sedere a gambe accavallate sul confine tra l’essere ben vestita e l’essere scappata di casa. Risultato: essere così bella e/o buona da potersi permettere di vestire comme un garçon mangiando, all’occorrenza, brioscioni da chilo, senza per questo perdere neanche un etto di fascinazione.

La bottega originaria di Alexandre oggi detiene un brevetto e possiede decine di negozi in tutta la Francia, anche al Faubourg Saint-Germain, perfino al Louvre. A fronte di una ricetta secretata e custodita in qualche grotta-caveau in riva al mare, guardata a vista da ninfe del mascarpone, il resto del mondo, come per ogni torta culto che si rispetti, si dibatte per rifarla il più possibile simile all’originale. In Italia c’è un leader a Milano: Égalité, a pochi passi da Porta Venezia: locale in perfetto spirito Marie Antoinette, che tra l’altro è anche raffigurata alle pareti del locale, con una brioscina in mano, a partire dalla scelta tardo-asburgica di intitolare all’uguaglianza una patisserie in cui una colazione completa costa come una cena media.

Torino, con la Torta Tropeziana della pasticceria Uva, sembra aver voluto cercare lo scontro diretto, al punto che da Saint-Tropez hanno fatto sapere, tramite carta bollata, che potrebbe essere il caso di cambiarle nome. A Roma e nel resto d’Italia è più difficile trovare una Tropézienne veramente ben fatta ma, se non si hanno particolari avversioni al fritto, un paio di bomboloni alla crema e la giusta dose di fantasia (necessaria comunque per immaginarsi in Place des Lices mentre si è ai Parioli), potrebbero bastare a rendere comunque l’idea.

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I bikini tricot, invece, sono praticamente ovunque, riprodotti in innumerevoli variazioni sul tema, più o meno francesizzanti, più o meno brasileire, e proprio in nome di Brigitte Bardot ne sono commercializzate diverse linee. Così, ancora oggi, Tarte e bikini, all’unisono, non smettono di commemorare quella prima, ormai irraggiungibile BB – Bella e Buongustaia – e il suo fascino nell’epoca della sua riproducibilità dolciaria e maglieristica, testa e corpo di una stessa donna straordinaria e di tutte quelle che le si sono, almeno in parte, ispirate, sempre ugualmente pronte a fare da apripista per qualunque ballo, ma anche a rimbrottare, a chiunque non vada loro a genio: “Se non hanno immaginazione, che mangino cornetti o indossino tanga”.