Bisognava solo aspettare che l’innesco Tarantino fosse inserito e che il Festival di Cannes potesse accendere la miccia per poi poterne vedere il risultato, delirante, con scene, fin dalle prime ore del mattino, davvero ai limiti. Sì perché se c’è un regista capace di calamitare l’attenzione, fare notizia, suscitare clamore, suspense, lasciare oltre cinque ore in fila, doversi pure sorbire un richiamo a non spoilerare “per far vivere giustamente al pubblico l’esperienza" era proprio Quentin Tarantino, nella giornata, tutto già deciso da tempo, che 25 anni lo portò a presentare proprio qui uno dei suoi capolavori maggiormente riusciti, Pulp Fiction.

Ora però c’è il nono film, C’era una volta a Hollywood (in Italia lo si potrà vedere solo dal 19 settembre), una lettera, va detto subito d’amore, tenera, appassionata, nei confronti di un momento d’oro, non solo del cinema.

È il 1969 a dettare legge (quest’anno si sta già celebrando in molti modi), lo sfondo perfetto, nostalgico, illusorio, per mettere in scena una ricostruzione di stile e costumi fatta da auto, lustrini, star, i set delle piccole e grandi produzioni, sogni infranti, così le ambizioni di tanti, o le cadute di molti.

E poi, fra tutto e tutti, i movimenti hippie, la rivoluzione sessuale, e poco lontano dalla Los Angeles di allora, una comunità – famiglia creata da un guru chiamato Charles Manson. Tra contraddizioni e apparenze, il bene e il male, emergono soprattutto due personaggi, Rick Dalton (un bravissimo Leonardo DiCaprio, tornato a collaborare dopo Django), attore in crisi d’identità, vittima di se stesso e dell’alcool, non più sulla breccia, a caccia semmai di qualcosa che possa farlo uscire dal viale del tramonto. Dall’altra, invece, c’è la sua ombra fidata, la controfigura complice, tuttofare, amica e sempre presente, Cliff Booth (interpretato da Brad Pitt), chiamato ad assicurargli la vita, dice, desideroso però di mostrare altro di sé. Loro, insieme (seppur marginalmente) alla nuova arrivata, Sharon Tate (Margot Robbie) moglie di Roman Polanski, diventano i volti su cui narrare l’ennesima, insolita conoscendo il regista, riflessione su un’epoca sempre unica e di grande ispirazione. Tarantino disegna la sua parabola così malinconica e lo fa a modo suo, senza però lasciarci in fondo un corto circuito, che, forse a molti potrebbe anche non piacere.

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